| di Alberto Trevellin |
Scrivo questa lettera più per me che per te. Ho bisogno di parlarti. Tu, che sei nel cuore della luce e dell’amore, sai già tutto. Mi senti, sai cosa penso, lo so. Lo diceva anche Turoldo che, una volta che qualcuno è morto, gli si può parlare meglio che da vivo, anzi, quello ci sente sempre e subito, ovunque. E io lo so che mi conosci e che vedi.
Ti ho dimenticato per anni, decenni. Solo qualche tempo fa mi sei tornato in mente. È stata nostra sorella, durante un pranzo, a farmi riflettere: – Se la mamma non lo avesse perso, avremmo un altro fratello o un’altra sorella, – così disse.
È da lì che ho cominciato a pensare a te, a chi saresti stato, a come saresti stato. L’unica cosa certa che so è che sei vivo, lassù in cielo, oltre le stelle, con l’altro Padre e l’altra Madre.
Ma come sarai lassù? Sarai un bambino o una bambina? Avrai la mia età? Come ti chiami?
Sarà forse per questo che ti ho dimenticato, perché non so il tuo nome, non so come chiamarti. I nomi quaggiù sono importanti, identificano una persona, aiutano a fissare un volto, un carattere.
Eppure tu ci sei, sei vivo, lo sei stato anche qui, ma per pochi mesi, nemmeno il tempo di uscire dalla mamma. Lo so perché credo che la vita sia vita da quando la scintilla di Dio, il suo soffio, entra nel grembo di una madre. L’uomo e la donna uniscono un pezzo della loro terra, di questa terra degli uomini, e poi Lui vi soffia dentro il suo Spirito. Ed è la vita, che solo Dio può far germogliare e questo accade da subito, non appena due briciole di carne si uniscono. La vita non può essere che da lì, da quando è ancora invisibile a tutti, minuscola, meno di un seme di papavero. Non importa che duri mezza giornata o cento anni, quel che conta è il soffio che l’ha animata, che ha fatto in modo che potesse affacciarsi sul mondo.
Molti non la pensano come me, per loro per essere veri uomini bisogna avere questo o quest’altro. Per loro, la vita, è soprattutto una questione di quantità. Devi avere tutto, se non ce l’hai, non sei un vero uomo, quindi non sei.
Se fosse come dicono loro, tu non saresti mio fratello, o sorella. Tu non ci saresti mai stato. Ma cosa sei stato allora in quei due mesi e mezzo in cui hai vissuto con noi, nella nostra casa, celato nel mistero, dietro il velo di carne di nostra madre? Chi eri, allora?
Ricordo solo che era un pomeriggio. Ero in bagno con la mamma, per quale motivo non so. Se ne stava sul bidè e in un attimo vidi il sangue, un grumo di sangue. Eri tu, morto. Lo disse anche lei, lo ricordo bene: – Ecco, morto… – con la voce spezzata di chi si arrende a qualcosa di più grande e che non dipende dalla sua volontà. Un aborto spontaneo.
Pianse, la mamma. Io capivo che era successo qualcosa di grave, capii che tu non avresti giocato con me, ma avevo quattro anni e non dissi nulla. Quanto potrà capire un bambino di una simile tragedia?
Poi tutto si spegne, ho memoria solo di quella giornata tremenda, dove tu venivi alla luce ma senza farti abbagliare, senza respirare l’aria della campagna, senza gustare gli odori della casa, senza poter fare una corsa. È l’unica foto che ho di te.
A volte ci penso e dico: – Ho un fratello o una sorella in Cielo, non siamo solo io ed Elisabetta.
La notte, soprattutto, quando esco a guardare quel pugno di stelle che brillano in cielo, mi vieni in mente tu. Ti penso, cerco una parola, che poi non viene. Mi basta pensarti e ti trovo, è come starci di fronte, anche se ancora non ti vedo.
Così ho iniziato a riflettere su quelli come te, vissuti una manciata di giorni nelle viscere di una donna.
Ci si dimentica di voi il più delle volte, perché non abbiamo incrociato i vostri volti, perché i nostri occhi non hanno incontrato i vostri e le nostre mani non si sono strette alle vostre. Ma per alcune madri resta il tremendo ricordo di non avervi mai abbracciato, di non avervi mai cantato una ninna, mai potuto darvi un bacio in fronte. Non hanno potuto mostrarvi al mondo, come il più grande prodigio della vita. Non hanno potuto dire: – Ecco mio figlio!
Alcune dicono: – Il figlio che non ho avuto, – e invece, pensando a te, ho capito che un figlio l’hanno avuto eccome, anche se per pochissimo tempo.
Ho un’amica che ha abortito quattro volte, tu conoscerai i suoi bambini sicuramente. Lei fatica a portare avanti una gravidanza, quei piccoli lottano, ma non ce la fanno. Vorrei tanto dirle che i figli che non ha visto crescere qua, la stanno aspettando lassù. Perché alla fine ci ritroveremo tutti, vero? Tutto torna al Padre. Tutto.
Vorrei dire a queste mamme che hanno abortito per loro volontà o per cause naturali: – I vostri figli vi stanno aspettando. Un giorno potrete finalmente abbracciarli.
Tu che ne dici? Non sarà così?
Ti direi che da oggi pregherò per te, anche se mi chiedo: che se ne fa uno che sta da Dio, letteralmente vicino a lui, delle mie preghiere?
Piuttosto aiutami tu, da lassù, che qui è bello, sì, bellissimo, ma è anche una gran lotta, con il male vigliacco che ti attacca alle spalle, in agguati tremendi per povere anime come noi.
Non posso prometterti che mi ricorderò ogni giorno di te, con la testa che ho poi… ma farò il possibile, ti chiamerò, ti cercherò. E anche se le mie preghiere non ti serviranno, saprai a chi donarle. Accettale come i regali che non ti ho mai fatto.
E tu non ti scordar di me, tuo fratello. Prega per noi, per la mamma e il papà, per tua sorella, per le nipoti con cui non hai potuto giocare, per la moglie che non ti ho fatto conoscere.
Ti ho detto di non scordarti e di pregare per noi, come se non lo facessi già. Perdonami, siamo fatti così, noi uomini, diamo suggerimenti al Cielo, dimentichi che il Cielo ha occhi solo per noi.
Buonanotte. Ti amo.
Alberto
Bellissimo