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di Alberto Trevellin
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La storia di un ragazzo non tanto “contro”, ma che ha percepito il senso profondo della vita e non vuole lasciarselo sfuggire.
Libro di maggior successo di J. D. Salinger, capace di influenzare ancora oggi intere generazioni, pubblicato nel 1951, Il giovane Holden è un’opera narrativa che afferra il lettore dalla prima pagina e non lo lascia più.
Il libro è la storia di Holden Caulfield, concentrata nell’arco di circa tre giorni, durante i quali vagabonda per New York, sbattuto fuori da scuola per l’ennesima volta.
È la vicenda di una crisi esistenziale, di uno che non è stupido ma non trova nessuno capace di ascoltarlo. Chiama tutti, prova a parlare con tutti, vuole comunicare il suo disagio, ma questi, o gli tappano la bocca, o dicono idiozie, o gli dicono che farà una brutta fine, che andrà a finire male.
È uno che cerca uno spazio nel mondo, il “suo” spazio, ma ancora non sa trovarlo. Non che si sia arreso, che non ci abbia provato, solo la vita non gliel’ha ancora offerto, a suo avviso.
L’unico posto dove sta bene, dove vuole tornare, è casa sua, non per stare con i genitori borghesi, anche loro insensibili al suo disagio, ma con la sorellina Phoebe, l’unica che pare capirlo e che, come direbbe lui, non gli rompe la palle. I bambini, in tutto il libro, sono come luci della sua vita, punti luminosi che riescono a restituirgli per un breve istante quella felicità che verrà poi sommersa dalla tristezza e dalla depressione. Basti ricordare il canto di uno di questi piccoli, la bambina che pattina a Central Park, i due amici che incontra al museo. E ovviamente Phoebe. L’infanzia sembra l’unica áncora gioiosa della sua esistenza, la finestra aperta sull’ingenuità e la bellezza. Il suo disagio esistenziale, se così possiamo chiamarlo, dipende anche da questo travaglio che sta vivendo, quello dalla fanciullezza alla vita adulta.
Ma nonostante il libro sia percorso da una sfilza di frasi del tipo «mi metteva tristezza», «ero così triste», «ragazzi se ero depresso», salgono dalle righe un humor e una speranza grandi, tanto che a volte ci si ritrova a ridere. Ed è difficile che un libro faccia ridere.
Questo avviene per il semplice motivo che Holden Caulfield, alla fine, è un buono, uno che non sa essere cattivo, un bravo ragazzo insomma: piange, beve per stordirsi non per colmare il famoso vuoto; vorrebbe una ragazza a posto, non è un maniaco; sa di saper scrivere, ha un certo gusto; non sopporta le idiozie. Così se le prende prima dall’ex compagno di stanza, contro cui nemmeno alza un dito, e poi dal pappone di una prostituta con cui neppure ha scambiato un bacio. Vuole offrire da bere a tutti: alcuni accettano, altri no. L’amico della Coloumbia, intellettuale, non ha tempo di ascoltarlo e l’ultima spiaggia, il professore Antolini, uno di cui si fida(va), alla fine allunga le mani per provarci.
Non gli resta che la piccola vecchia Phoebe sulla giostra, per gettare luce vera in quei giorni grigi: «Quasi mi mettevo a gridare, tant’ero felice, se proprio volete la verità. Non so perché. Sarà che era talmente carina, accidenti a lei, mentre girava e girava, col suo cappotto azzurro e via dicendo. Dio, peccato che non c’eravate.»
Un libro che è sempre passato come opera del disagio giovanile, di chi è contro qualcuno o qualcosa: il sistema, la scuola, la borghesia, le perdite di tempo. Ed è una tesi che indubbiamente ha una sua ragion d’essere. Tuttavia è innegabile la luminosità e la nobiltà d’animo del giovane Holden, non tanto un ragazzo “contro”, ma uno che ha percepito il senso profondo della vita e non vuole lasciarselo sfuggire.