Di fronte al roveto ardente. Sulla contemplazione dell’amata e sui limiti del linguaggio

| di Alberto Trevellin |

Quando ci si innamora e si ha, per così dire, un certo gusto, una certa predisposizione per la letteratura, per la dimensione umanistica della cultura, si cerca di utilizzare questa sorta di competenza per convincere la propria amata della sincerità dell’amore che si prova per lei. L’innamorato tenta di utilizzare a suo vantaggio la propria lingua, il linguaggio che ha appreso sin da bambino, dai genitori, dagli insegnanti, dai libri etc.

Non a caso in una scena di L’attimo fuggente, il prof. John Keating chiede ai suoi allievi: – Il linguaggio si è sviluppato con uno scopo, e cioè di?

Un alunno: – Di comunicare?

– No, di rimorchiare le donne.

In questa risposta irriverente, sarebbe disonesto non riconoscervi una certa verità, dato che l’uomo scrive, utilizza la propria lingua, per affascinare, conquistare, convincere e, di conseguenza, tenere legata a sé la propria donna il più a lungo possibile. È un modo colto e raffinato di mantenere vivo il proprio amore. Un modo di alimentarlo attraverso la parola.

D’altra parte l’uomo è proprio questo, logos, Parola. Questa abita l’essere umano, ne è l’elemento antropologico imprescindibile, senza cui non si potrebbe nemmeno dire umanità. Per il cristianesimo il Verbo di Dio si è persino fatto carne, è diventato uomo. Parola incarnata.

Questo modus operandi, ossia servirsi del linguaggio per tenere stretta a sé la propria amata, cominciai ad utilizzarlo quando m’innamorai, nel lontano 2002, di quella donna che oggi è mia moglie.

Eravamo poco più che bambini, quattordici anni appena compiuti, e sentivo in me il bisogno quasi fisiologico di scriverle, non solo per “rimorchiarla”, come direbbe Keating, ma perché attribuivo alla parola una potenza e un valore tali da poter farle comprendere tutto il mio amore per lei.

Lo stesso Keating preciserà infatti che noi non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino, noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria, sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.

Non ho cominciato subito con le poesie, ma con le lettere, delle lunghissime lettere, spesso tediose. Facciate intere di un amore adolescenziale che cercava la propria dimostrazione con questi fogli scritti a mano: – Più le scrivo, più capirà quanto la amo, – pensavo.

Ricordo ancora il diario del primo anno delle superiori, quando mi ero da poco infatuato della ragazza bionda. Scrissi su ogni pagina, in alto, come un mantra, a mo’ di titolo: Greta ti amo. Non in corsivo, ma in stampato maiuscolo. Che si vedesse! Che tutti vedessero! Che fosse chiaro!

I miei compagni e le mie compagne del ginnasio rimanevano sbalorditi. Quella cotta tremenda mi costò quasi una bocciatura e gravi lacune in greco, latino e matematica, lacune che recuperai in rimonta solo negli ultimi due anni. Tranne quelle in matematica, quelle non le recuperai mai.

Facevo anche degli interminabili video, da mezzora, un’ora addirittura, dove ripetevo sempre le stesse cose, dove le dicevo mille volte che l’amavo e che avevo una paura terribile che il nostro amore potesse finire. Anche qui mi dicevo: – Più il video sarà lungo, più capirà quanto la amo. Ero un megalomane della parola amorosa, ma allora mi sembrava l’unica via.

C’erano poi le canzoni. Ascoltavamo insieme interi cd di Jovanotti o alcune compilation appositamente elaborate da me. Tutte canzoni d’amore e strappa lacrime.

Potrà far sorridere qualcuno, ma sono certo che ascoltare a quattordici anni Ti sposerò (Jovanotti) e altri testi “forti” per quel nostro momento, altre parole, ha fatto sì che qualcosa entrasse nella nostra storia, qualcosa senza la quale, probabilmente, oggi non saremo insieme e io non sarei qui a battere queste righe. Quando sentivo quei versi, quel ritornello che sapeva di preghiera, ti sposerò, ti sposerò, ero già convinto che l’avrei sposata, un giorno. E così è stato.

L’amore che nutrivo per lei era così travolgente che, ad un certo punto, sentii la necessità di farglielo sapere pubblicamente. Non mi bastava più dire: – Greta, ti amo! – No, dovevo dire anche: – Guardate quanto amo Greta!

Iniziai così ad appendere striscioni, lenzuola bianche rubate a mia nonna o a mia mamma, sulle quali “incidevo”, con la bomboletta spray, dediche brevi o il classico “ti amo”. Li appendevo fuori da scuola o sulla rete metallica di fronte a casa sua. Non me la sentivo di scrivere sui muri del suo liceo. Mi sembrava fosse più romantico e civile il lenzuolo bianco, come la pagina di un quaderno. Solo una volta scrissi sul muro della stazione del treno da cui partiva per la scuola. Me ne pentii subito, anche perché l’avevano ritinteggiato due giorni prima.

Per fare il graffitaro della notte, partivo verso le nove di sera, di solito con un amico o con mia mamma, e insieme appendevamo questi brandelli di poesia, questi versi giovanili.

Il giorno dopo l’andavo a prendere e, mentre l’aspettavo, vedevo studenti e professori che sorridevano passando di fronte a quegli striscioni d’amore. Erano sorrisi di approvazione.

Io ero molto imbarazzato e abbassavo la testa, come se mi avessero potuto riconoscere, ma allo stesso tempo una gioia straordinaria mi pervadeva:

– Ecco, ora anche tutta la sua scuola, tutto il suo paese, tutti quelli che sono passati di qui, sanno quanto la amo.

Potenza delle parole, o forse dovrei dire potenza della Parola, che sempre si rivela in modo inaspettato.  

Poi lei usciva, ci baciavamo, di solito avevo anche un mazzo di fiori, la aiutavo a staccare lo striscione (anche lei era imabarazzata) e poi tornavamo a casa assieme.

Chissà che fine hanno fatto tutte quelle lenzuola…

Cercavo, insomma, di dire il mio amore con tutti i mezzi possibili: lettere, canzoni, video, striscioni, parole sussurrate e poesie.

La poesia ha sempre occupato un posto significativo nella mia vita, vi ho sempre colto qualcosa di sublime, qualcosa capace di sfiorare il divino, lo sforzo di articolare un mistero dentro delle sillabe.

Turoldo diceva che il linguaggio poetico è il tentativo di dire l’indicibile, l’ineffabile.

All’inizio le dedicavo numerose poesie, scritte da me o da altri, anche se quelle di questi ultimi le ho sempre ritenute insufficienti a cantare il mio amore. È ovvio, d’altra parte. Il poeta scrive la poesia d’amore per la sua amata, non per quella di un altro e così facendo la sente sempre imperfetta per la storia che sta vivendo, perché c’è sempre qualcosa che alla fine la rende insufficiente. Per questo le poesie d’amore è meglio scriverle da sé.

Anche ora le scrivo poesie, su fogli sparsi qua e là. Pochi versi, cerco di dirle tutto con il minor numero di parole. Perché la poesia è anche questo: riuscire a dire, a racchiudere tutto, in un solo verso. Se prima ero straordinariamente prolisso, ora sono altrettanto parco. È perché ora, dopo tanti anni di vita assieme, un “ti amo” vale molto più di prima. Se a quattordici anni valeva uno, ora vale cento. Ogni singola parola che le porgo vale molto di più.

È stata la poesia, insomma, insieme a tutte le altre forme di linguaggio attraverso cui sono passato, con le quali ho tentato di cantare il nostro amore, di elogiare la mia donna, a portarmi in una dimensione apofatica, se così si può dire. La poesia, infatti, è l’ultimo stadio della parola, dopo c’è solo il silenzio.

La percezione che qualcosa fosse cambiato l’ho avuta ancora diversi anni fa, quando cercando di scriverle qualche lettera, qualcosa di simile a una poesia, ho iniziato a rendermi conto dei limiti della lingua, ovvero che il linguaggio era diventato un limite. Perché questo nostro amore, anziché diminuire negli anni, non ha fatto altro che crescere, è aumentato e aumenta ogni giorno in una maniera che non so dire, in un modo tale che nessuna parola può più descriverlo. È strano… all’aumentare dell’amore, le parole vengono meno.

Ciò accade quando ci si inoltra nelle langhe dell’amore sovraumano, quando ci si accorge di trovarsi di fronte al roveto ardente da cui sgorga il sacro fuoco. Perché così mi sento da alcuni anni a questa parte, come Mosè di fronte al roveto ardente: – Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia? (Es 3,3).

Già, perché il roveto non si consuma? Perché non muore? Perché questo amore, come tutte le cose, non finisce? Perché continua?

Mi avvicino, non proferisco parola, una voce mi coglie da un altrove e io riesco solo a balbettare. Di fronte al mistero della donna che amo, di fronte alla sua bellezza, la lingua incespica, si aggroviglia, resta muta. Posso cantare solo frammenti di lei, cercare di descrivere cosa significhi contemplare la propria donna in Dio, come sto facendo ora, ma la totalità del suo mistero, della sua bellezza, del nostro amore, non emerge che nella contemplazione balbettante e silenziosa, maturata con il corso degli anni, come il buon vino che, invecchiando, diventa migliore.

Quando si coglie tutto il mistero, la bellezza e la verità racchiusi nell’altro, quando l’amore degli amanti appare in tutta la sua eternità, ogni parola diventa un balbettio, ogni verbo, ogni sostantivo, un incespicare con una lingua che non sa più dire, perché ciò che appare è oramai indicibile, indescrivibile. Ogni paragone, ogni metafora non restituiscono che un frammento dell’amata. Non basta più dire, con Petrarca, erano i capei d’oro a l’aura sparsi, oppure, con Dante, sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve sotto verde manto /vestita di colori di fiamma viva. O, ancora, con Neruda, No te amo come si fueras rosa de sal, topacio /o flecha de claveles que propagan el fuego: /te amo come se aman certa cosas oscuras, /segretamente, entre la sombra y e el alma. (Non ti amo come fossi rosa di sale, topazio o freccia di garofani che propagano il fuoco, t’amo come si amano certe cose oscure, segretamente, tra l’ombra e l’anima). Neppure i versi del poeta cileno, pur così potenti, riescono a descrivere quel che ormai si contempla nell’amata e attraverso l’amata.

Le parole perdono potenza, non riescono a catturare il senso ultimo delle cose. Come diceva Zanzotto: – Niente, per dire parole che valgano la pena bisognerebbe almeno averne novecento di anni.

Accade ciò che diceva Wittgenstein: – Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.

In breve, si giunge ad un silenzio contemplativo.

Eppure a questo silenzio contemplativo, dove la parola non smette, ma si trasfigura, ci sono arrivato attraversando tutte le parole che ho utilizzato per cantare e dire il mio amore a questa donna. Sono le parole che mi hanno condotto al silenzio. Ma un silenzio generativo di un altro linguaggio, perché questo silenzio non è un vuoto di parole, un’assenza, ma una trasformazione del linguaggio stesso. Un suo compimento.

Contemplazione è arrivare, anzi, trovarsi oltre il linguaggio umano. Dopo aver camminato e camminato, si giunge in riva al mare e ci si ferma, non si può andare oltre, si può solo contemplare ciò che sta di fronte.

Contemplazione è questo stare in silenzio di fronte alla cose, perché finalmente se ne è colto il mistero e nulla più si può dire, nulla più si può cantare. Non è più necessario aprir bocca, anzi la parola incontra tutto il suo limite perché stride con l’abisso di fecondità del silenzio e del senso che in esso affiora. Non si ha più bisogno di spiegazioni, di canti. Basta il silenzio d’intorno e la contemplazione di ciò quel che si ha dinnanzi.

Dicevo del mare, si pensi ad esso… cosa si po’ dire del mare, del suo blu, quale poesia potrà mai rivelarne tutto il mistero, tutta la bellezza? Vi saranno sempre poesie e canti a suo riguardo, ma saranno solo brandelli di una visione, versi di una parte, di un frammento di esso.

La contemplazione invece offre uno sguardo sul tutto e non su una sola parte. È a quel punto che la lingua percepisce tutto il suo imbarazzo, il suo essere poca cosa rispetto a quanto si sta contemplando.

Il silenzio, allora, diventa la lingua di quel mistero. Il verbo non sparisce, non si annulla, ma, paradossalmente, rivela il suo vero volto restando muto. Il linguaggio, cioè, trova la sua pienezza nel silenzio.

Mi capita di stare così, di fronte alla donna che amo, come Mosè di fronte al roveto ardente, come in contemplazione di qualcosa che non so più dire, più spiegare, perché tutta la sua bellezza, tutta se stessa, tutto l’amore che provo per lei, sta ormai oltre le parole.

Spesso me ne accorgo quando la fotografo, nei campi o in riva al mare. Il sole dietro tramonta e calando la investe di luce.

In quei momenti parliamo raramente. Resta il silenzio d’intorno e la luce che avvolge tutte le cose, anche lei, ma in modo particolare.

Oppure, più modestamente, succede a casa, quando la osservo-contemplo nelle sue mansioni feriali, nei gesti di tutti i giorni: spruzzarsi un po’ di profumo, vestirsi, sistemare la cucina.

Diventa una questione di sguardi, a quel punto. Lei coglie la mia contemplazione, il rapimento, quasi estatico, e capisce tutto, senza che proferisca parola. Entrambi, nel silenzio dei nostri sguardi che s’incontrano, cogliamo tutta la sacralità del nostro amore e tutto si fa chiaro, illuminato.

Come due mistici, ci adoriamo. “Mistica”: chiudere, tacere. “Adorare”: portare la mano alla bocca, tacere.

Bisogna farsi un po’ mistici, nel senso di chiudere le labbra, per contemplare la propria amata, bisogna tacere per coglierne tutto il mistero, che dice sì l’imperscrutabile, ma, allo stesso tempo, si pone come rivelazione.

E alla fine, si potrà dire, cosa contemplo? Cosa vedo sulla rena dove il linguaggio si arresta? Su quella spiaggia dove la terra finisce e comincia il mare? Vedo il suo essere da Dio, il suo essere nel cuore di Dio, il suo essere luce. Guardando lei, mi si rivela Dio. Lei diviene sua traccia, suo segno in questa vita, frammento di paradiso, di bellezza eterna.

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