| Alberto Trevellin |
Sono sull’argine. È fine ottobre. C’è la nebbia. Fa freddo. Sto correndo.
Il tempo delle gare, delle medaglie, dei premi, è lontano.
«Cosa sto facendo?» mi chiedo.
«Stai pregando.»

Era l’autunno del 2016 quando tra me e me intercorse questo breve dialogo. Lo ricordo limpidamente. Ricordo la curva del sentiero, il ghiaino sotto i piedi, i suoni ovattati dalla nebbia veneta. Il silenzio e questo interrogare me stesso: perché corro?
Ormai da diversi anni avevo lasciato l’atletica, la velocità. Ero tornato alla corsa dopo la nascita della mia prima figlia e dopo aver scoperto che si può correre anche lentamente, sui crinali delle montagne, tra gli abeti solenni o sul margine di un torrente.
Però era venuto meno il motivo per il quale mi ero allenato per tutta l’adolescenza. Non dovevo più battere nessuno, né vincere qualcosa, né partecipare a qualche gara.
Fu proprio lì, correndo lentamente lungo il placido fiume, che compresi ciò che ora significava per me correre. Voleva dire anzitutto stare bene con me stesso, con la mia interiorità, ma anche sentirmi Dio vicino, al mio fianco, quasi che correre fosse diventata la mia nuova forma di preghiera.
Se dovessi fissare una geografia di questo libro e individuarne i natali, direi che è nato proprio lì, mentre correvo nel silenzio e nella nebbia lungo il fiume Brenta.
Il libro, pertanto, parla di Dio e della corsa, di un certo modo di interpretarla e di viverla.
Non è un manuale, né illustra i profili dei più importanti corridori. È più che altro una riflessione su cosa possa essere la corsa per chi ha fede o coltiva una propria spiritualità. Mi spingerei ad affermare che è una sincera testimonianza di ciò che ho imparato e ricavato da quest’attività antica e attualissima, per molti aspetti ascetica, spirituale.
Le pagine che seguono riflettono, così, parte della mia fede, del mio cristianesimo. Spero che questo non allontani chi, pur non essendo credente, né tantomeno cristiano, voglia cercare nella corsa un di più, un oltre, che superi il semplice meccanicismo del gesto atletico e il mero obiettivo della vittoria.
Non escludo, infatti, che alcune di queste riflessioni possano coincidere con quelle di qualcun altro, di chi, magari, ha provato certi moti dell’animo, certi sussurri interiori, proprio durante la corsa, nella solitudine di un bosco o nel caos dell’asfalto. Asceti spesso inconsapevoli di ascendere, pellegrini verso una meta che non finisce sul traguardo.
Non c’è, d’altra parte, un solo modo di vivere la corsa, di interpretarla, ce ne sono molteplici e ciascuno vive quello a sé più adatto.

C’era tuttavia una domanda che mi assillava mentre pensavo di scrivere questo libro: la corsa può essere davvero una forma di preghiera, una forma di ascesi, uno stare con Dio o sto invece allontanandomi dalla tradizione e dal cuore della vera orazione per raccontare un’assurdità?
Il quesito mi ha tormentato a lungo, perché nel cristianesimo la preghiera ha come scopo primario la comunione con Dio, ma anche la pace interiore, il raggiungimento dell’hesychia, della quiete.
A prima vista, infatti, la corsa pare proprio l’opposto di quello che è normalmente inteso come “preghiera”, anche perché se dovessimo seguire il consiglio di Gesù «Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto» (Mt 6,6), noteremmo subito che correre richiede, diversamente dall’indicazione del Maestro, un uscire dalla propria camera, un andare fuori e lontano.
Eppure c’è in questo gesto atletico, nell’infilare un passo dietro l’altro, qualcosa di ascetico, di spirituale, che in qualche modo riesce a mettere l’uomo in comunione con Dio. Lo si percepisce soprattutto nelle lunghe distanze, quando è la propria mente a divenire una camera, una stanza interiore, e quando il corpo, pur teso e contratto nelle falcate, si viene a trovare in un particolare stato di quiete. Ci sono insomma stanze che non sono solo quelle della casa in cui abitiamo, ma che si trovano in noi, e c’è poi una quiete che, paradossalmente, può essere vissuta anche durante lo sforzo atletico, fisico.
Queste considerazioni, meditate negli anni lungo argini, strade e boschi, mi hanno alla fine convinto a dar vita a questo lavoro, nella speranza che qualcuno, dopo averlo letto, possa trasformare ogni allenamento e ogni gara in una preghiera, di lode, di ringraziamento o di richiesta che sia, di modo che da semplici corridori si diventi atleti di Dio.

