| di Alberto Trevellin |
Per arrivare sull’altopiano delle Pale di San Martino, per prima cosa si deve salire in cielo, avvicinarvisi dal paese, da San Martino di Castrozza. Dai suoi 1600 metri si deve poi fare un balzo, a piedi o con la funivia, di altri mille metri circa. Un tuffo verticale, verso l’alto.
Giunti in quota, una volta superato il rifugio Pedrotti-Rosetta, dopo venti minuti di cammino, si comincia a percepire che cosa sia l’altipiano e quale grandioso spettacolo riservi a chi abbia la forza e la volontà di penetrarlo lentamente, nel sole accecante e nel silenzio sublime, interrotto solo dal rumore dei passi e dall’acqua che scende dall’ultimo brandello di ghiacciaio della Fradusta.
Chi frequenta questa porzione di Dolomiti, chi vi è stato, sa che le montagne del Primiero e di Castrozza, i paesaggi più straordinari, le cime, stanno proprio qui, in questa pianura rocciosa, a 2500 metri di altitudine. A valle appaiono straordinariamente imponenti, grandiose e accecanti nel loro splendore, esercitando un fascino impagabile per chi le contempla dal basso. Ma a valle si è ancora sulla terra, tra gli uomini. Lassù, invece, ha inizio un altro mondo, un’altra vita delle cose e dell’uomo. Lassù tutto o è luce trasfigurante o nubi e tormenta.
La grande traversata delle Pale di San Martino l’ho percorsa la prima volta nel 2009, da solo, poi nel 2015, con mio suocero. Entrambe le volte partendo dalla val Canali, per arrivare infine alla funivia Rosetta, che riporta il pellegrino celeste a San Martino di Castrozza. È un cammino lungo, in alta montagna. Un cammino che, dall’ultima volta, mi è sempre mancato, di cui ho sempre avuto nostalgia. Così quest’estate (giugno 2022), si è presentata come il momento ideale per farvi ritorno.
Mia figlia, che ha compiuto da poco otto anni, cammina ormai come un adulto, senza lamentarsi in alcun modo. Chiede solo, di tanto in tanto, come ogni buon pellegrino delle vette:
– Quando arriviamo al rifugio?
Allora la rincuoro, le dico:
– È lì, lì dietro.
– Ma non lo vedo.
– Lo so, ma c’è, fidati.
E avanti con passo lento, ma costante.
Consapevole delle sue capacità mi è sembrato l’anno giusto per la grande traversata. Non volevo però traumatizzarla con l’infinita salita che bisogna affrontare partendo dalla val Canali. Ho preferito partire da San Martino: primo tratto camminando, da Col Verde al Rosetta con la funivia, traversata delle Pale, discesa verso la valle. Una camminata molto lunga, ma non impossibile.
Avevamo scelto la giornata migliore, quella in cui il meteo afferma che non pioverà nemmeno nella peggiore delle probabilità. Volevamo che il sole ci accompagnasse dall’alba fino al nostro ritorno, che illuminasse tutte le cose con luce divina, le vette, le rocce, le chiazze di neve. Ed è stato così, la stella ha brillato tutto il giorno.
Dopo un’ora di cammino in questo deserto di roccia, nella luce piena, il cielo era diventato di quel blu nitido e pulito che solo un’esposizione prolungata degli occhi al sole può regalare. Lei però, per il suo albinismo oculare, ha dovuto tenere gli occhiali. Li ha tolti solo qualche volta.
All’una, con il sole sempre lì, a far piovere luce sulle cose, sulla santa materia, ci siamo fermati per mangiare.
Intorno a noi l’enorme distesa di roccia, qualche chiazza di neve rimasta lì, a resistere agli attacchi delle alte temperature. In lontananza, il rumore leggero dell’acqua che si allontana dal ghiacciaio, verso il mare.
Ho tirato fuori dallo zaino il pane, gli affettati e il formaggio. Da bere, acqua.
Abbiamo recitato insieme la preghiera, la preghiera per eccellenza, l’unica lasciataci dal Maestro: Avú-n d-b-ishmayya/Padre nostro, che nei cieli stai…
A turno abbiamo fatto quello che facciamo ogni giorno, intorno alla mensa, con le altre sorelle e la mamma, ringraziare per qualcosa avuto o accaduto in quella giornata.
E allora, Signore, grazie per le Pale di San Martino, per il ghiacciaio, per la roccia dolomitica, per il Cimon della Pala, perché possiamo camminare e venire quassù, a benedirti e a ricevere la tua benedizione. Grazie per l’acqua che ci disseta, per le nostre gambe infaticabili, per i nostri polmoni che lavorano come mantici. Grazie, Signore, per il pane.
Ho preso il pane, il sacro pane della terra, cibo primordiale, ho iniziato a tagliarlo, ho messo il prosciutto in abbondanza, il formaggio e glielo ho porto perché lo mangiasse: prendete, e mangiatene tutti.
Poi è stato il mio momento, per me solo pane e formaggio.
Acqua, dalla borraccia, freschissima. Silenzio delle cime e del mondo.
È stato lì, in quel preciso istante, anche se l’ho capito due ore dopo, che Cristo si è rivelato a noi, proprio nello spezzare il pane, nel condividere il pane. Ci si era accostato, in maniera discreta, senza che ce ne accorgessimo, con quella grazia che solo Dio può avere. Si era seduto lì, forse vicino a mia figlia, forse al mio fianco e si era fatto sentire più del solito.
Lassù, ai confini della terra, ho celebrato la mia prima messa, insieme a mia figlia. Lì, proprio lì, nel cuore delle Pale di San Martino, ho sperimentato il sacerdozio universale, quello ricevuto al battesimo. Ma non ero solo io a celebrare, c’era anche mia figlia, anche lei a dire grazie, a dire εὐχαριστέω/eucharisteo, anche se non se ne è resa conto, forse… perché i bambini… vai tu a capire come elaborano certe esperienze. E cosa voglia dire celebrare una messa, a 2500 metri di altitudine, lo può sapere solo chi frequenta quelle regioni liminali e chi abbia, almeno una volta, condiviso il pane con i proprio compagni, al cospetto del cielo, nella grande cattedrale di roccia.
Come i discepoli di Emmaus, che avevano riconosciuto il Figlio nello spezzare il pane, più tardi, scendendo dai sacri monti, dalla dolomitica mensa, ho sentito il fuoco, quel fuoco, che arde in chi ancora trema nel ricordo di quel pranzo eucaristico, di quella messa padre-Figlio-figlia, un giorno d’estate, sulle Pale di San Martino.
Stupendo!!!
Grazie, Stefania!