| di Alberto Trevellin |
La recente fotografia dell’ISTAT sulla situazione demografica in Italia è, ancora una volta, tragica. A fronte di 713mila decessi, nel 2022 si sono registrate appena 393mila nascite. è la prima volta che si scende sotto le 400mila unità. In Italia si contano 1,24 figli per donna, media nazionale. Media che andrebbe quantomeno rivista terminologicamente, chiamando in causa anche gli uomini, tanto per non puntare i riflettori sempre e solo sulle donne, come fosse una questione riguardante esclusivamente loro.
Ci sono regioni che fanno eccezione, come il Trentino-Alto Adige, dove la media sale a 1,51 figli per donna, seguito da Campania e Sicilia, rispettivamente 1,35 e 1,33 nati per donna. In fondo alla classifica troviamo la Sardegna: 0,95 figli per donna (7,4 anziani per ogni bambino). Terz’ultimi in Europa, dietro a Malta e alla Spagna.
Possiamo consolarci sulla longevità degli italiani, che ci colloca al primo posto in questo caso. In Italia ci sono 22mila ultracentenari, un record.
Ma se i figli non nascono e gli anziani vivono sempre di più, ciò significa invecchiamento inesorabile della popolazione.
Gli effetti nefasti del calo demografico, che ormai neppure l’immigrazione tanto malvista riesce a riequilibrare, sono ribaditi da anni. Meno figli significa un paese che invecchia sempre di più, meno lavoratori, meno capacità competitiva delle aziende, meno benessere generale.
Gli stessi dati ci dicono che tra le motivazioni, il fatto che i giovani non vogliano fare figli non è l’unica causa. Pesa molto anche l’ingresso tardivo nel mondo del lavoro (stabile), sempre dopo i trenta e l’incertezza finanziaria (basse retribuzioni).
Il governo sta spingendo molto sul potenziamento dell’assegno unico familiare, che doveva essere la rivoluzione del sostegno alle famiglie ma che, invece, non ha cambiato di molto la cifra che già la tipologia di assegni precedenti garantiva. Alcuni nuclei ci hanno addirittura rimesso, nel senso che, a parità di condizioni, ricevono meno sostegno di prima.
Puntare tutto sulla svolta economica, cioè sull’impegno dello stato a sostegno delle famiglie con figli o di quelle che stanno pensando di averne, è certamente auspicabile e tutti si augurano un intervento rivoluzionario in tal senso. Ma il denaro non sarà l’unica soluzione.
Pare che manchi, piuttosto, una vera e propria promozione della natalità e della genitorialità intesa come qualcosa di bello, di unico, sulla quale puntare tutto. Manca una concezione del figlio come qualcosa di straordinario e gratificante per la propria vita e per il bene della comunità. Perché un bambino che nasce è un essere irripetibile, concepito nella mente di Dio, ancor prima che in quella dei genitori, che porterà sangue nuovo alle arterie e al cuore dell’umanità. Per il bene di tutti.
Per fare questo, però, bisogna partire a promuovere la bellezza dei bambini, e dei figli quindi, non puntando sui trentenni, ma, semmai, sui quindicenni. Un’età dove sicuramente i figli sono l’ultima cosa che i ragazzi hanno in mente, ma lo stesso si potrebbe dire di tante altre cose che, durante gli anni scolastici, imparano a mettere nel bagaglio delle loro vite, per tirarle fuori, qualche anno più avanti, nel mondo del lavoro.
Le scuole e le università, i docenti, i dirigenti, i rettori, dovrebbero puntare tutti in questa direzione, senza se e senza ma. Una scuola che non promuove la natalità è una scuola che sta perdendo, o ha già perso, la speranza in un futuro migliore, giovane e rinvigorito dalla bellezza dei nuovi nati. Un paese che invecchia è un paese destinato alla solitudine e alla tristezza.
E qui la scuola e l’università, da sempre fucine di cambiamenti e d’innovazioni, devono investire le proprie risorse, umane e finanziarie. Altrimenti anche loro, fra qualche anno, dovranno fare i conti non tanto con le “culle vuote”, ma con le sempre più numerose “aule vuote”. Sta già accadendo in quasi ogni paese d’Italia. Intere sezioni che scompaiono, perché i bambini, e quindi gli studenti, non ci sono più.
Se i docenti, ovvero se proprio quelli che hanno deciso di dedicare una vita ai ragazzi, non investono e non s’impegnano affinché quelli che sono stati loro studenti generino i loro futuri studenti, la scuola abdicherà ad uno dei compiti e delle missioni a cui oggi è chiamata.
Questo impegno dovrà necessariamente vedere l’intesa costruita con i genitori, che, a loro volta, saranno partecipi di questa promozione. Quale padre o quale madre, infatti, potrà insegnare ai propri figli che non è bene avere dei figli? Sarebbe come dir loro di essersi pentiti di averli messi al mondo.
Se scuola, università e famiglie lavoreranno in maniera sinergica, utilizzando strategie che non implichino solamente l’analisi dei dati statistici sulla drammatica situazione delle nascite in Italia, se si lascerà da parte ogni tono accusatorio o che possa essere percepito come coercitivo, se si di diverrà, invece, testimoni di bellezza, ribadendo che l’essere umano, per quanto complicato sia, è sempre da promuovere, allora nascerà nei giovani il desiderio sincero di avere un bambino. Al di là di quello che lo stato potrà dare. Perché il figlio, a quel punto, diverrà più importante di ogni bonus e di ogni assegno. Lo si vorrà guardando prima ai propri cuori che al conto in banca.
Nell’incertezza dei tempi, nell’epoca delle passioni tristi, della cultura della morte, insegniamo ai ragazzi e alle ragazze che la vita è bella, che merita di essere vissuta fino in fondo e di essere donata anche ad altri, ai propri figli. Insegniamo che essere padri e madri non è una disgrazia o un obbligo sociale che si perpetua nei secoli, ma la cosa più bella che un uomo e una donna, insieme, possano fare nella loro vita.