Al cospetto della Creazione. Tornare al Creato per sentirsi creati

| di Alberto Trevellin |

Il problema ecologico, che è il problema del nostro tempo, un problema grosso, che abbiamo causato noi e che sta mettendo a dura prova il nostro pianeta in tutta la sua straordinaria complessità, ha risvegliato in molti la necessità d’invertire la marcia, di tornare, in un certo senso, alla natura, quantomeno di tornare a rispettarla.

Il bisogno recente, degli ultimi decenni, tremendo, di andare per boschi, vie di pellegrinaggio ultra millenarie, crinali di monti, deserti, spiagge solitarie è indice di questo bisogno viscerale dell’uomo di riappropriarsi di uno spazio che il progresso e l’urbs, da lui stesso promossi e in cui egli stesso vive, gli hanno sottratto. È come se egli percepisse un richiamo o una necessità di frequentare quei luoghi ancora intatti, ancora lontani dalla contaminazione urbana, dalle megalopoli, dal traffico, dallo smog. È come se avvertisse che il posto in cui si trova, la città, ha subito una trasformazione troppo repentina e qualcosa è andato storto. Ai prati e ai boschi si è lasciato troppo presto spazio all’asfalto, ai condomini, ai grattacieli.

Forse, però, in questo bisogno di ritorno c’è qualcosa di più radicale. 

Il processo di urbanizzazione fulmineo degli ultimi cento anni, infatti, è andato di pari passo a quello della secolarizzazione, alla perdita di sacralità di quasi ogni aspetto della vita che, nel passato, era scontato perché evidente. Questo quantomeno quello che è accaduto nell’Occidente, perché, a quanto pare, dove questa forma di progresso ancora non è arrivata, o è ora solo agli inizi, questo lutto del sacro non è avvenuto.

Questa perdita, questo lutto, è imputabile, anche, ma non esclusivamente, alla riduzione, se non alla totale scomparsa, della natura in contesto urbano. 

Dov’è, infatti, la natura in città? Che fine ha fatto? Non c’è più, è scomparsa, si è gettato su di essa un pesante velo di asfalto e cemento. Ancora, dove sono finiti gli animali, le bestie, le altre creature che avevano convissuto con gli uomini dall’alba dei tempi? Dove sono le vacche, i maiali, gli asini, le galline? Non ci sono più, relegati e ridotti anch’essi alla ignobile catena di montaggio dell’industria alimentare.

Per provare a risolvere il problema abbiamo creato i parchi urbani, tentativo goffo, grottesco per certi versi, e commovente di cercare di ripristinare almeno un centesimo di quanto abbiamo affogato. Ma a meno che non siano opere dello Jappelli, questi parchi hanno la stessa aria delle riserve indiane, come a dire: abbiamo sbagliato, vediamo se così facendo qualcosa migliora.

Il problema grave è che all’uomo non è tanto stata sottratta la grande natura selvaggia, quella che ancora oggi così si preserva, ma quella più semplice che era stata dei genitori e dei nonni, dell’Italia bucolica e agreste, di cui ancora abbiamo qualche testimone.

Ecco, perdere ettari di campi a discapito della città, del progresso, ha indebolito il senso del sacro di chi vive in città o nella sua periferia. Per chi aveva vissuto, invece, a contatto con la terra e i suoi animali, la sacralità era quasi scontata, ovvia, perché il primo libro di Dio, il primo con cui egli parla agli uomini, non è la Bibbia, ma il Creato, il cosmo intero.

Per cui il ritorno alla natura a cui oggi si assiste, pur con qualche rischio di deragliare in qualche forma di paganesimo, non è solo un ritorno alla natura fine a se stesso, per ritrovare la pace, almeno per qualche ora, che questa può dare all’uomo, ma è anche un ritorno al sacro e quindi del sacro. Un ritorno a Dio, alla fine, anche se al di fuori degli schemi delle religioni istituzionali.

È infatti solo nei campi, nei boschi, in riva al mare che l’uomo percepisce la Creazione, non in città. La città è creazione dell’uomo, non di Dio.

Solo di fronte alla bellezza della natura può aprirsi nell’uomo la possibilità di un Creatore, solo al suo cospetto, questa, la natura, diventa Creazione. E a quel punto, nel momento in cui l’uomo coglie, esperisce, la natura come Creazione, come evento voluto da qualcuno che sta al di sopra di lui, egli stesso, dentro a quella natura, a quell’evento, sente di farne parte, di appartenergli, di essere, anche lui, creato.

In questo suo fare esperienza del Creato comincia a percepirsi come creatura, risale al desiderio originario di chi ha voluto non solo quanto lo circonda, ma la vita di lui, il suo stesso essere al mondo, il suo esserci. 

Nella natura, dunque, che a questo punto diventa sinonimo di Creazione o Creato, dir si voglia, l’uomo capisce che qualcuno ha voluto questa bellezza, in cui egli trova ristoro e pace meglio che in città, luogo, come abbiamo già detto, della creazione e dell’ingegno umano, non divino.

Cogliendo, invece, la Creazione come evento voluto, desiderato, da un Creatore, allora egli stesso comincia a sentirsi voluto, desiderato. Capisce di essere stato voluto da Dio più delle montagne, delle stelle, dei boschi, dei campi che egli contempla dinanzi a sé e che l’hanno ricondotto a lui.

Ecco perché il ritorno, l’urgente bisogno di immergersi nel Creato, di vivere una vita il più vicino possibile alla natura, perché quel bisogno tradisce, in realtà, un bisogno di sacralità che le città hanno spazzato via, ma l’uomo, che è segnato dal desiderio ontologico di Dio, non trova quiete finché non riposa in lui. Il sacro, nell’uomo, non perirà mai, la voce di Dio, sempre lo chiamerà. E questa voce imperitura, questo bisbiglio divino, si ode meglio al cospetto dell’immensa bellezza e dell’ineffabile bontà della Creazione.

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