Tenere in braccio Dio. Meditazione sul Natale

Qualche giorno fa la piccola Teresa ha avuto la febbre, di quelle che fiaccano questi corpicini rendendoli ancora più teneri di quel che già sono. Si sta a guardare il male, questo fuoco che li prende, questa temperatura che sale e si spera che passi, il prima possibile, in fretta, perché un bambino non può stare male, non deve soffrire. No, non può e non deve, non lo si riesce a guardare un bambino che sta male, anche solo per una febbre

È anche cominciato l’avvento e alla fine della prima rampa di scale, abbiamo fatto un presepe, un bel presepe. Ho avuto la grazia di trovare tre pannelli di legno ricoperti da un telo blu notte, con centinaia di fori per le luci, in alto, mentre alla base sta una carta paesaggistica che ritrae un ambiente, se non strettamente palestinese, quantomeno mediorientale. L’impatto è davvero grandioso per un presepio fatto in casa.

Sotto questo immenso cielo abbiamo messo, con Diletta, le poche statuine e le molte pecore (di queste ce ne sono sempre in abbondanza), la capanna, con Giuseppe e Maria che fissano un punto a terra terribilmente vuoto, perché Gesù, così è, va messo solo il 25 dicembre, e alcune casette, sparse qua e là. Il tutto circondato da montagne costruite con quella stupenda carta che sa davvero dare un tocco artistico a questo piccolo borgo palestinese, qui, in casa nostra.

Così quando è sera e tutto è buio, silenzioso, quelle centinaia di punti che brillano sullo sfondo blu dei pannelli trasmettono quella dolce sensazione che solo il Natale sa dare. Dovrebbe essere la Pasqua, nella vita del cristiano, a colmarlo di gioia, ma è andata che fosse il Natale a darci quel senso di pace profonda a cui tutti agogniamo. Credo dipenda dal fatto che è una festa più universale, perché riguarda la nascita di un bambino, e perché si è contenti di ricevere un regalo così, senza aver fatto nulla, senza esserselo meritato, come nel giorno del compleanno. Uno dice: “toh! un regalo! Eppure non ho fatto niente!” E non ci par vero.

Passeggio su e giù, da una stanza all’altra, in piena notte, con questa bambina tra le braccia, calda e sudata, che piange e si riaddormenta. Cerca il mio braccio, la mia spalla e si abbandona completamente. Non si arrangia, non può e non vuole, ma anela le mie mani o quelle della mamma, come a dire “non ce la faccio! Non ce la faccio! Aiutami, tu che puoi!” e se anche non riesco a farle passare la febbre, quantomeno posso darle la mia sicurezza, coccolarla con tutta la dolcezza e la tenerezza che ho, dondolarla, cantarle una ninna bisbigliando. Di tanto in tanto baciarla sulla fronte e sulla guancia. Non posso fare di più, se non aspettare, pregare. Ma a lei sembra bastare questo mio abbraccio, il sentirsi avvolta dal papà come nel calore di una coperta che dà sicurezza.

Continuo a passeggiare, se mi fermassi, o lei inizierebbe a piangere, oppure io crollerei dal sonno.

Passo di continuo davanti a quel presepe luminoso, unico luogo da cui proviene la luce in questa notte. Guardo il presepe e guardo mia figlia, guardo la capanna e ritorno con gli occhi su questa piccola. Per qualche istante mi sembra di aver Gesù tra le braccia, o meglio, penso che anche il Figlio di Dio, un giorno lontano, era così, come questa mia bambina, con questa carne, questo volto stanco della malattia, con questa umanità addosso

La fisso bene, dai piedi alla testa e dentro di me esclamo: “anche Gesù era così!” E allora mi chiedo, cosa avranno provato quei pastori, quei magi, a vedere tra la paglia e un paio di bestie il Figlio di Dio? E non come un re, ma come una creatura minuscola, perché i bambini, quando nascono, sono incredibilmente piccoli. E allora cos’è questo Dio che si è fatto così piccolo? Si poteva essere così umili? E cosa sarebbe stato se fossi stato lì? Forse avrei chiesto se potevo tenerlo in braccio e non sarebbe stato lui a dirmi di no, ma Maria o Giuseppe, al massimo. Lui si sarebbe lasciato prendere da me, si sarebbe accoccolato sul mio avambraccio, con la testa incastrata tra il petto e l’angolo del gomito.

Torno a mia figlia e capisco che davvero, in terra di Palestina, migliaia di anni fa, si sarebbe potuto prendere Dio tra le braccia, sbaciucchiarlo, coccolarlo… ma che razza di Dio è uno così? Davvero non so pensare a nulla di più grande.

E poi come mia figlia, nei primi anni, non avrà mica fatto tutto da solo, avrà cercato le braccia di Giuseppe, le gonne di Maria, avrà detto “ho fame”, “ho sonno”, “ho male” e allungando le mani avrà cercato l’aiuto dei suoi genitori. Ma cos’è, soprattutto chi è, questo Dio che chiede il mio aiuto?! Che tende le braccia verso di noi? Non dovrebbe essere il contrario? Non siamo noi a cercare le braccia del Padre e il suo di aiuto?

Eppure me lo immagino il piccolo Gesù malato, nella casa di Nazareth, così, come la mia piccola Teresa, con la fronte calda e il sonno inquieto, e Giuseppe andare su e giù per la stanza, a cullare suo figlio, il Figlio di Dio, un Dio incredibilmente debole, ma pure così vero, perché non è forse in questa sua debolezza, nell’essere venuto al mondo proprio in questo modo, che gli uomini hanno riconosciuto la sua divinità, la sua grandezza e potenza?

Di nuovo torno al presepe e alla testina di questa creatura sulla mia spalla. Per un briciolo di secondo immagino Gesù poggiato su di me, proprio con quel corpo lì, e quel volto, quel peso, quei capelli arruffati. E tremo, perché duemila anni fa andò così, con Giuseppe, Maria e chissà quali altri personaggi muti del Vangelo.

È questo ciò che mi affascina di più del Natale, la nascita di questo bambino che è Dio, messo lì nella capanna, un Dio arrivato in silenzio, senza clamore, per quello ci sarà tempo. Mi colpisce quel suo corpicino fragile, quella sua pelle come la mia, quel suo essere debole, come me. Il suo aver bisogno degli uomini, delle sue creature, lui che è creatore. È un Dio che non solo viene in nostro aiuto, ma chiede pure il nostro aiuto, è un Dio che ha bisogno di noi. Certo è venuto per il vangelo, per la buona notizia, ma in quella è scritto pure che lui ha necessità di noi. Non è venuto solo per dare il suo amore, ma anche a mendicare il nostro: Simone, mi ami? (Gv 21,15-23)

È un Dio che ha bisogno di amore, di riceverlo, non solo di darlo.

Allora eccolo laggiù, nel pianerottolo della rampa di scale, a sconvolgermi anche quest’anno, come sempre, tra la statuina di un pastore e quella di un viandante che punta il dito verso il cielo. Eccolo lì, a dirmi la sua grandezza nel suo essere piccolo, la sua potenza nel suo essere così debole.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *