Eucharisteo. Quando per i miei trent’anni salii a piedi sul Grappa

Eucharisteo

– quando per i miei trent’anni salii a piedi sul Grappa –

 

 

Alba, sullo sfondo cima Grappa.

Anno nuovo, vita nuova, corse nuove.

Trasferitici finalmente nella nuova casa, ristorati dalle vacanze natalizie, passato il periodo della pesante burocrazia scolastica, ho potuto riassaporare la gioia della corsa i primi di gennaio, dopo due mesi di arresto forzato per vari motivi.

Se sei allenato e ti fermi due mesi, quando riprendi le gambe girano come mulinelli e ti sembra di poter andare ovunque, con loro due, cosicché solo la ratio limita il tuo fantasticare, regolandolo su ciò che realmente puoi o non puoi fare.

Mentre correvo, una mattina, col cielo grigio, le nuvole grigie, le montagne grigie, tutto grigio insomma, perché così è la pianura d’inverno, eccolo lì, come sempre, immobile e solenne, carico di neve: il monte Grappa.

Tutti lo sanno ormai, a volte devo essere anche tedioso, ma quella montagna mi chiama, m’invita. In alcuni periodi questa vocazione è latente, in altri mi assale con forza, costringendomi, volentieri, a salire per i sentieri di quel sacro monte.

Lo guardavo il Grappa e pensavo all’anno nuovo, il 2018, anno dei miei trent’anni, delle prime somme da tirare, perché trenta non sono più così pochi.

Guardavo la montagna e mi guardavo dentro, ripercorrendo gli anni dall’infanzia ad oggi e nonostante le difficoltà, che ora mi sembrano poco cosa, scoprivo la mia vita gravida di bene, e di amore soprattutto, dei miei genitori, portale della vita, che mi hanno sempre amato e a cui devo, assieme a Dio, l’esistenza. Di mia sorella, che mi ha amato sempre di più di quanto facessi io con lei, meravigliandomi tuttora di ciò. Di mia moglie, compagna di classe delle medie, donna infinitamente più forte e grande di me. Assieme abbiamo coltivato un amore che non si può più descrivere perché il linguaggio ha pure i suoi limiti e quello che potevamo dire l’abbiamo ormai consumato anni fa e ora non ci restano che gli occhi e il silenzio, per guardarci dentro e in un attimo dirci tutto, capire tutto. È fatto così, l’amore, quando cresce a dismisura, lascia muti, facendo spazio a nuovi linguaggi.

Amore delle mie bambine, che hanno stravolto la mia vita, fecondandola di una gioia che sembra non avere fine, nonostante le fatiche, dando un senso maggiore, se non il più importante, all’esistere.

C’è poi l’amore fuori dai vincoli familiari, quello degli amici, alcuni passati, altri ancora presenti, a cui devo moltissimo e a cui penso ogni giorno.

Infine l’amore di Dio, da cui dipende tutto il resto. A questo amore, nell’ultimo decennio, ho cercato di abbandonarmi sempre di più, scoprendo che meno resistenze si oppongono alla grazia, più essa penetra nella tua vita.

Pertanto, ora, se mi guardo indietro, ho una sensazione di vuoto al cuore, dettato dalla meraviglia e dall’immensità di questi amori, per i quali spesso non mi sento degno.

Questi i mie pensieri mentre correvo, nel freddo inverno, per la campagna silente, guardando il Grappa lontano. Proprio quella montagna mi fece capire che era arrivato il momento di un “grazie” grande a Dio per tutto questo, che era pure un grazie a tutti coloro attraverso cui passa questo amore. Un’eucarestia dei trent’anni, ecco, a questo pensavo.

Ma come ringraziare di tutto questo? Che regalo fare? Cosa donare, cosa offrire? Non possedendo alcun valore, economico-materiale intendo, capace di ricambiare tutto questo, non mi restava che ripagare con la stessa “moneta”: l’amore stesso e la preghiera, nella quale da un po’ di anni annovero anche la corsa.

Fu lì che decisi di andare sul Grappa, a piedi.

 

Devo essere sincero, per questa lunga preghiera, non mi ero preparato poi così bene. Non è facile per il padre-corridore allenarsi spesso, perché sono uno di quelli che… prima la famiglia, che è come dire prima l’amore in pratica. San Paolo docet perché se non avessi la carità nulla mi giova.

Così si fa quel che si può, si ritaglia del tempo quando sembra non esserci, si rinuncia a qualcosa e si va.

Quando arrivò “il giorno del Grappa”, avevo ancora nellegambe e nel cuore 50km fatti quindici giorni prima, fatti bene ma non del tutto recuperati.

Per questo motivo e per il fremito causato dalla domanda ce la farò?, la settimana precedente era passata più o meno insonne, in una certa agitazione, con la sensazione, durante le lezioni in classe, di mancanza di respiro, di affanno.

Il giovedì prima della partenza, fissata per sabato 14 aprile, era caduta ancora neve, facendo registrare nuovamente un record in un anno particolarmente nevoso. Le previsioni tuttavia mi rassicuravano, le temperature si sarebbero alzate sensibilmente e la neve si sarebbe sciolta. Ero comunque pronto a infracidarmi i piedi. Nel frattempo, mentalmente, stando alle mie possibilità, ripassavo l’ipotetico planning orario:

ore 6, partenza

ore 12, arrivo in valle santa Felicita

ore 16-17, arrivo in cima Grappa

La sera, prima di coricarmi, ho pregato la coroncina della Divina Misericordia, mia fedele alleata.

Pur avendo puntato la sveglia alle 5.15, alle 3.45 ero già sveglio. Troppo presto per alzarsi, così mi sono costretto a riaddormentarmi, ma quel riposo forzato non è durato che fino alle 5, così ho deciso di alzarmi con leggero anticipo.

Con una certa pesantezza agli occhi e la mente non ancora brillante, ho cominciato a preparare lo zaino, concentrandomi sulla nuova sacca idrica acquistata il giorno precedente. In equilibrio precario ho iniziato a riempirla con acqua, maltodestrine, amminoacidi e magnesio, ma vuoi per il sonno, vuoi per la novità, mentre la richiudevo me ne sono tirata addosso mezzo litro.

Calzini e pantaloncini si sono subito bagnati, facendomi arrabbiare ma a bassa voce, per non svegliare chi ancora stava dormendo. Mi sono tranquillizzato subito, dovevo, per non partire male.

Dopo essermi rassettato alla buona, ho proseguito le operazioni caricando solo l’essenziale: due mele, due arance, una decina di fichi secchi, una bottiglietta da mezzo litro con acqua e magnesio, vestiario necessario per l’alta quota. Già così era colmo, per cui ho dovuto rinunciare alle gallette e a una maglia calda.

Dopo aver concluso in silenzio questi turbolenti preparativi, mi sono dedicato alla colazione e mentre bevevo la mia tazza di tè, rigorosamente verde, recitavo, leggendola, una stupenda preghiera attribuita a san Patrizio, che inizia così I arise today… io sorgo oggi, grazie a una forza possente, l’invocazione della Trinità…

È una preghiera che ho scoperto di recente al ritorno da un pellegrinaggio a Medjugorie, che trasmette tutta la potenza della fede in Cristo, spesso offuscata dal buonismo e dalla tiepidezza di un certo cristianesimo. È una preghiera, per farla breve, di combattimento spirituale.

Ho baciato mia moglie, che puntuale si sveglia con l’aurora, e con i arise today… ancora in testa, sono partito.

Pur essendomi svegliato leggermente prima del previsto ero riuscito a partire con dieci minuti di ritardo, alle 6.10. Il sole sorgeva gagliardo all’orizzonte, i campi trasudavano il tepore della terra e in fondo, verso nord, ammiravo con un fremito al cuore la meta che mi attendeva.

Il “programma ritmico”, chiamiamolo così, prevedeva: primi 10km a 6’30″/km; poi 5km di cammino a 10’/km alteranti a 5km di corsa sempre a 6’30″/km, fino alle pendici del monte.

Nei mesi precedenti avevo cercato un itinerario alternativo per non correre interamente per la trafficatissima Valsugana, ma avrei dovuto inoltrarmi per strade mai fatte prima, con il rischio di sbagliare qualche viuzzola e arrivare in valle santa Felicita con già 50km nelle gambe. Non me lo potevo permettere, perciò ho deciso di farmi 43 km di asfalto, smog e traffico.

Grazie a Dio il corpo stava bene, il fastidio all’anca era appena percettibile e per questo le gambe andavano veloci, considerando anche i 5kg che avevo sulle spalle. Invece di viaggiare a 6’30″/km, non avevo grosse difficoltà a correre intorno ai 6’/km.

Il tragitto non era dei migliori, ma essere partito relativamente presto ha fatto sì che evitassi l’orario di punta del traffico.

Calmo ma determinato accorciavo sempre più la strada che mi separa dalla cima.Come al solito mentre correvo ascoltavo musica, quando camminavo pregavo.

 

Arrivato a Belvedere, ormai prossimo a Bassano, sentivo di aver bisogno di mangiare qualcosa e di fare un po’ di stretching. Correndo cercavo un parchetto, un rettangolo d’erba, ma a parte l’asfalto e un filare ininterrotto di case e negozi non c’era nulla che potesse offrirmi un poco di ristoro, un briciolo d’ombra. Fortunatamente davanti alla canonica del paese c’era una panchina, sotto un enorme abete.

Mi sono fermato lì, iniziando i miei armeggiamenti e suscitando la perplessità del don che era lì fuori per altri motivi.

Da Rosà fin poco dopo Bassano, prima di entrare a Romano d’Ezzelino per intenderci, il tempo sembrava non passare più e a fare un chilometro avevo la sensazione di averne fatto uno e mezzo, segnali di una certa stanchezza che andava accumulandosi. Ero comunque in perfetto orario ma nonostante ciò continuavo a ripetermi Sono ancora a Bassano?!

Uscito dal centro finalmente potevo dirigermi verso Romano, dove, per scongiurare crisi idriche e alimentari, mi sono fermato in un panificio per prendere una pagnotta ai cereali e due litri d’acqua.

Gli ultimi due chilometri che mi separavano dalla valle li ho percorsi con un leggero senso di gratificazione, ma pure con la consapevolezza che il cammino non era ancora finito, anzi la parte più dura cominciava là, dopo 43 km di percorso.

Sotto la protezione di alcuni abeti ho mangiato ancora qualcosa, ho tolto scarpe e calzini, dando tregua ai miei piedi, causandone come una reazione di euforia ad uscir di lì. Ho inviato gli ultimi messaggi a Greta, ho fatto ancora stretching… e mentre fissavo la montagna, che ora non vedevo più nella sua interezza, nella mia testa, come capita sovente, è partito il ritornello di una famosa canzone di Venditti, adatta più che mai a quel momento… e quando penso che sia finita, è proprio allora che comincia la salita, che fantastica storia è la vita

Con questo motivetto, ho provato a ripartire di corsa, ma mi sono reso conto da subito che le gambe non giravano più come prima e che non era il caso di sprecare energie, così, dopo neanche un minuto, sono passato alla camminata.

Quando sono arrivato all’attacco del sentiero 100, quello che conduce alla cima, ho sentito sulle gambe tutta la fatica accumulata. Mi rendevo conto che sarebbe stata dura, molto dura, forse troppo… e per un attimo mi è balenata la possibilità di non farcela, pensiero che fuggo subito, come una maligna tentazione.

Di musica non ne volevo sapere, desideravo godere del bosco e del suo silenzio, oltre al fatto che tenere le cuffie addosso quando sono molto stanco m’intontisce terribilmente, illudendomi di far meno fatica, mentre in quel modo ne faccio il doppio.

A quel punto ho deciso di pregare, non sarei riuscito a tenere il conto, lo sapevo bene, ma mi dicevo che era meglio così, non avrei avuto il patema della conta, del numero.

Non pregavo a voce alta, né solo mentalmente ma quasi come un sussurro recitavo le avemaria, una dopo l’altra e oggi, ripensando a quei momenti, quelle preghiere le ricordo con dolcezza, come qualcosa che è riuscito ad alleviare la mia fatica.

Il primo tratto, due chilometri e mezzo, è durissimo ed è quella che io chiamo “la salita dei faggi”,attraversa infatti un bellissimo faggeto. Alcuni punti, per la stanchezza, mi sembravano quasi verticali.

Per farmi coraggio e non pensare alla lunghezza del tragitto che ancora mi aspettava, circa 13km in salita, mi ripetevo che avrei dovuto affrontare tre salite impegnative, quella dei faggi, “la salita dei cavalli”, perché alla base di partenza si trovano quasi sempre cavalli al pascolo e “la salita al sacrario”, che consiste in realtà in un continuo saliscendi negli ultimi due chilometri.

In questo modo cercavo di allontanare l’idea della fatica, quelli sarebbero stati gli scogli più duri ma una volta superati non mi rimaneva che una semplice camminata in Grappa, mi dicevo. Di fatto però il sentiero era sempre in salita e il corpo lo capiva bene.

Al termine della prima salita ho cominciato infatti a sentire il quadricipite destro irrigidirsi sempre più, irrigidimento che da lì alla cima non mi avrebbe più mollato, costringendomi a numerose soste per l’allungamento muscolare.

Ormai prossimo a Campo croce, contento di aver terminato la salita più difficile e lunga, ecco che il bicipite femorale sinistro inizia a vibrare… ogni persona che faccia un minimo di sport sa bene che quello è un preavviso di crampo.

Ho cercato lo stesso di andare avanti ma non volevo correre il rischio di farmi male a 6 km dalla cima.

Era come se il mio corpo mi stesse dando degli ordini, per il mio bene ovviamente, fermati!fermati!, così, benché desiderassi proseguire per non perdere il passo, mi fermai.

Sconfortato, titubante sulla mia condizione fisica, ho cominciato a mangiare qualcosa, a fare ancora stretching, insomma a ristorarmi un po’. Di lì a qualche metro sarebbe iniziata infatti la seconda salita.

Per la seconda volta vengo attraversato dalla possibilità di non farcela, troppo stanco, troppo tirato fisicamente, ma è un attimo e mi dico che sarà quello che Dio vorrà.

Certo di questo, sono ripartito con determinazione ma la nuova salita ha frenato subito quella gioia che mi aveva confortato pochi minuti prima.

Classica posizione di esultanza boltoniana

Benché più breve si presentava ancora più difficile della prima per il grave affaticamento. Sentivo i muscoli delle gambe sull’orlo dei crampi, che mi aspettavo da un momento all’altro. Fortunatamente, a parte la grande fatica, non accadde nulla.

Ormai avevo cominciato la salita da due ore e mi rendevo conto di essere davvero al limite. Il corpo andava avanti ma con enorme difficoltà.

Proprio alla fine di quella salita mi sono accorto che non avevo smesso di pregare da quando ero partito, che quelle avemaria ormai mi uscivano dalle labbra come un mantra, come se fosse la cosa più naturale.

Ma ecco la fine del bosco, finalmente riuscivo a vedere il sacello del sacrario, ormai mancava poco, ce l’avevo ormai fatta, ma non cantai ancora vittoria, consapevole che stanco come ero mi sarei potuto fermare prima.

Il sole, lì in alto, scottava già nonostante fosse appena metà aprile e ci fossero solo 10°. Tutt’intorno un cielo limpido e un silenzio straordinario, di quelli che parlano.

Ormai andavo avanti strascicando i piedi, lentissimo, per non incorrere nei crampi al termine di quel lungo cammino.

Sempre più vedevo avvicinarsi quel desiderio di ringraziamento che avevo accarezzato per mesi, allenandomi nel rigido inverno appena passato, per le strade del mio paese, con gli occhi sul monte, che stava lì e mi chiamava.

Avvicinandomi alla cima realizzavo di avercela ormai fatta e un paio di volte mi commossi per la gioia.

Qualche centinaio di metri prima del sacrario un cartello avvisa gli escursionisti di aver rispetto di quel luogo, perché si sta entrando in una zona sacra. Come faccio di rito, mi sono allora inginocchiato e prostrandomi ho baciato quella terra, pregando per le migliaia di soldati che lassù davvero riposano in pace.

Mentre facevo questi pensieri ecco sopraggiungere una macchina lungo la strada e guarda caso era mio papà, con Greta e le bambine.

Avendomi riconosciuto, anche loro si sono fermati, mio papà è sceso e quasi voleva che salissi con loro, a cento metri dalla cima! Gli urlo di aspettarmi al sacello e così sono ripartiti.

E finalmente eccola, la vetta del Grappa. Non c’è nessuno nei pressi del sacello quando vi giungo.

Mi ero immaginato una sorta di arrivo trionfale, abbracciato dai familiari, carico di adrenalina, con le braccia al cielo, urlando qualcosa e invece mi sentivo piegato e svuotato di tutto, non avevo nulla da dire, né tantomeno da urlare, solo questo senso di svuotamento, quasi di purificazione per quello che avevo appena concluso.

Stendendomi a terra, accarezzato dal sole, sono stato invaso da una pace profonda e da un senso di gratitudine che non dimenticherò mai.

Per un momento, con gli occhi chiusi, mi è parso di vedermi dall’alto, steso lì… una sensazione difficile da restituire a parole.

Era finita, ce l’avevo fatta e quella lunga corsa mi sembrava una sintesi della vita.Comprendevo meglio le parole di san Paolo, quelle sulla “meta”.

La vedevo, la mia vita, come è stata, com’è, come sarà: veloce nel primo tratto, caotica, poi tranquilla, sempre più lenta verso la Fine, ma colma di silenzio e di pace, fino ad arrivare lassù, alla cima, alla meta, quando ormai sarò oltre quella cima.

 

Babbo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amata

 

 

 

Vite mie

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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