Storia di un Mars

Il Mars non mi è mai piaciuto. Lo dico chiaramente. Quel caramello, quella melassa appiccicosa non sono mai riuscito a farmela andare bene. Devo essermene accorto alla medie, durante qualche gita sul Po’ o chissà dove.

Del Mars ne basta un boccone e ci si sazia per una giornata. È una merenda per chi ha davvero fame o per qualcuno che la mattina si sveglia e dice “bene, oggi un Mars e tiro dritto fino a sera.”

Ogni boccone è pesante come la viscosità che lo contraddistingue.

Il più delle volte, quando vuoi mandarlo giù, si incolla al palato come fosse malta e devi fare operazioni circensi mirabolanti, con la lingua, se te ne vuoi liberare. Una volta superato questo primo attrito, uno pensa “è fatta!”, ma è quando il boccone inizia a scendere che capisci che la disavventura è appena cominciata. Ti senti sazio subito, a dire il vero più che sazio, ti senti appesantito. Eppure è solo un pezzo, nella mano hai tutto il resto da finire.

L’altro giorno una bambina di quinta, Fortunata, entrando in classe dalla ricreazione mi si avvicina timidamente, con gli occhi bassi e dondolandosi appena a destra e sinistra. Tiene le mani dietro la schiena, nascondendo qualcosa, si capisce. Le porta in avanti, sulla cattedra e ci poggia sopra un Mars.

Nella foga del rientro non capisco.

“Perché Fortunata?”

“Per te maestro.”

“Ah! – dico un po’ perplesso per l’inaspettato dono – grazie, grazie mille.”

Devo richiamare gli altri, far sedere, mandare in bagno, tranquillizzare. La conversazione finisce lì e lei se ne torna al posto.

Tornata la calma, o almeno quello che più le somiglia, mentre tutti sono intenti nella consegna da svolgere sul quaderno, decido di richiamarla.

“Fortunata. Vieni qui.”

Lei mi guarda come chiedendosi di quale colpa la dovrò imputare.

“Vieni! Vieni!” le dico con tono rassicurante.

“Come mai mi ha regalato un Mars?”

“Per te maestro, perché ci insegni, perché spieghi bene le cose, ce le dici bene e a me piacciono. Allora volevo dirti grazie.”

Dita invisibili mi prendo da qualche parte, alla bocca dello stomaco. Quelle parole così semplici e schiette mi tramortiscono, per motivi che a breve racconterò.

Un po’ imbarazzato la ringrazio infinitamente, so che per lei è un dono che costa caro.

La guardo mentre torna al posto, con la testa china, segno della timidezza e della dolcezza che la contraddistinguono, e che le danno quella postura, le fanno abbassare lo sguardo, avvicinarsi lentamente alla gente.

Fortunata è una bambina che viene dall’Africa. Dall’altra parte del mare, quello che raccoglie i cadaveri dei suoi nel blu oscuro e profondo.

È nera, un nero lucente. Ha le treccine tipiche delle donne africane, quelle che vengono proposte sui nostri litorali durante l’estate. Ha anche due fratelli, Fortunata, uno più grande e con gravi difficoltà scolastiche, e uno più piccolo, che da poco ha cominciato a parlare. La mamma si occupa di loro, il papà tira a campare, con un lavoro in regola, raccimolando 1300 euro al mese quando gli va bene.

Ho parlato con quest’uomo, con quel viso nero, d’Africa. Ha gli occhi della figlia, i gesti gentili e calmi. Non alza la voce, non si arrabbia. Lui ascolta. Ascolta le insegnanti, quello che hanno da dire e dice “grazie per quello che fate. Grazie.”

Da poco la loro famiglia ha dovuto cambiare appartamento, perché il padrone di casa ha venduto quella casa dove stavano. Quindi niente, tanti saluti e arrivederci.

Ora la mamma con i tre figli sono ospiti di un centro che accoglie famiglie che vivono disagi di varia natura. Un centro lontano quindici chilometri da scuola. Il papà però non può stare con loro, non ho capito perché. Non può e basta. Vive perciò con un amico a quasi trenta chilometri di distanza dalla famiglia e ogni mattina alle sei parte, va a prendere i figli e li porta a scuola.

Si scusa, è dispiaciuto. Dice che sta cercando una sistemazione migliore, che deve trovarla. Per la famiglia, per i bambini.

Non voglio star qui a fare la solita retorica buonista dei poveri neri venuti dall’Africa, che soffrono, patiscono etc.

Voglio solo dire che Fortunata, bambina di un’intelligenza rara per la sua età, mi è venuta a dire grazie, mi ha dato un Mars. Era forse tutto quello che aveva da darmi? Che Dio la benedica.

Pochi giorni prima c’era stata la consegna della pagelle e tanti genitori, non tutti, ma tanti, in fila per chiedere, dire “ma qui sette… perché non otto? Qui otto, perché no un nove?”. Una mamma ha messo in discussione che l’ovest e l’est siano punti cardinali, dice che dipende dai punti di vista. Glielo ha annotato a matita a una mia collega, sulla verifica del figlio. La signora non viene dall’Africa, veste sempre in pelliccia, mica ecologica, guida grosse cilindrate, è sempre abbronzata, anche quando da noi è due mesi che c’è solo nebbia.

Ecco cos’ho apprezzato di questa famiglia africana. Il grazie sincero, il senso di rispetto nei confronti degli inseganti, la fiducia totale in loro, consapevoli che noi siamo lì per educare e insegnare bene ai loro figli. Questo fanno respirare ai figli un papa e una mamma che vengono dall’Africa. E i figli, che non sono sciocchi, si nutrono di questo.

Allora ecco il Mars sulla cattedra. Suona la campanella. Porto fuori i bambini. Rientro in classe come fa un allenatore che guarda il campo dove c’è appena stata una partita.

Mi siedo. Riordino tutto. Prendo il Mars in mano. Me lo giro e rigiro tra le dita. È un comunissimo Mars del supermercato, ma quanto è costato a quella bambina? Quanto amore e rispetto nei miei confronti (e delle mie colleghe, perché l’ha regalato anche a loro) ci ha impresso? Quale significato profondo racchiude quel pezzo di cioccolato e caramello?

Ci faccio una foto, in previsione di scrivere queste righe per lanciarle nel mare di internet.

Lo riguardo. Alla fine lo apro e inizio a mangiarlo. È sempre lui, il sapore non è cambiato, la viscosità neppure e dopo il primo boccone vorrei smettere. Ma è un dono di una bambina semi povera e non mi lamento, anzi la merenda prende un altro gusto, sarà per tutto quello che ci vedo dietro, o forse sarà perché una bambina timida e silenziosa ci ha infuso l’amore e la gratitudine nei confronti della scuola e di chi, ogni benedetto giorno, le insegna e le vuole bene.

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