Il dramma ecologico che stiamo vivendo è causato anche da uno scarto generazionale importante.
Si coglie, nei discorsi di chi ha dai 45/50 anni in su, una percezione leggera e a volte scanzonata del danno ecologico che l’umanità sta perpetrando al pianeta.
Quando ne parlo con alcuni amici, più grandi di me, della fascia d’età appena citata, mi sembra quasi di non essere ascoltato. Per questi, l’inquinamento o il surriscaldamento globale, sono incidenti di percorso, quasi normalità, un “cosa vuoi che sia…” Li guardo negli occhi, ascolto le loro vacue risposte e non riesco a capire cosa non gli sia chiaro. Soprattutto non capisco perché non abbiano a cuore una causa che riguarda le loro stesse vite e quelle dei loro figli. E di chi verrà dopo.
Insomma per molti adulti il dramma non sarebbe così drammatico, i rischi sarebbero lontani e lievi, i cambiamenti che sta subendo il pianeta non davvero gravi.
Se scendiamo sotto quella soglia d’età, quindi dai 45 anni in giù, la percezione del danno muta sensibilmente, fino ad arrivare ai giovanissimi, quelli che hanno dai 10 ai 20 anni, che sembrano essere i più preoccupati per quanto sta accadendo, come hanno dimostrato recenti manifestazioni.
Il fatto è curioso perché proprio questi sono quelli che possono meno: non ricoprono ruoli di potere, né hanno capacità decisionali davvero in grado di dare una svolta alla situazione. Non possono nemmeno fare la spesa e, per esempio, decidere di comprare le arance che vengono dalla Sicilia invece di quelle che vengono dal Sud Africa, con grave dispendio di carburante, conseguente inquinamento e qualità scadente del frutto.
Ma la gravità di tutto questo è che chi dovrebbe educare non educa, anzi resta indifferente o soprassiede a un imperativo civico. Chi invece dovrebbe essere nella situazione di educando si trova a dover educare i “grandi”, a spiegar loro che le merendine sono piene di conservanti e aromi artefatti, che il succo d’arancia tanto bello nella sua scatola supercolorata forse fa più male di un bicchiere (non di un bicchierino) di grappa, che la plastica deve sparire dalla faccia della terra, che l’uovo del supermercato l’ha covato una gallina che vive in una gabbia tanto insalubre da rendere poco salutare l’uovo stesso; e avanti di questo passo.
Sono i figli che insegnano ai genitori, gli adolescenti che spiegano agli adulti, e che faticano a farsi ascoltare.
– Fibrillazioni della pubertà! – direbbe qualcuno. – Slanci missionari di poco conto, – potrebbe affermare un altro. Di cose simili, tutti ne abbiamo sentite.
Forse negli adulti non alberga più la speranza di un mondo migliore, forse si sentono vicini alla fine della loro vita o a quota 100. Ormai quello che dovevano fare l’hanno fatto e pace, al resto ci pensi qualcun altro, anche all’ambiente.
Nei giovani invece arde la speranza di lavorare per un mondo migliore da consegnare alle generazioni future, e non da godere solo nel loro presente. I giovani sentono tutto il dramma e l’urgenza di cambiare, di rovesciare un ordine che è completamente sbagliato e a totale danno per l’uomo.
Sembra che i “grandi” non si rendano conto che il danno ambientale è un danno che riguarda l’uomo stesso, integralmente. È un danno antropologico. Non è che riguardi la natura, riguarda l’uomo, che della natura è parte integrante; non è che esista l’uomo da una parte e la natura dall’altra: l’uomo è la natura. Per questo motivo dovrebbe essere evidente che un danno alla stessa comporta, inevitabilmente, un danno all’essere umano. Se io inquino l’aria, respirerò aria inquinata. Se inquino i campi, mi nutrirò di cibo inquinato. Se inquino l’acqua, berrò acqua contaminata.
È così logico ed evidente che faccio fatica a comprendere come in molti non si rendano conto di tutto ciò, come non riescano a percepirne la gravità. Sarà il camuffamento della pubblicità o una libertà votata al consumismo inconsapevole.
È così logico e drammatico che un bambino, in tutta la sua sensibilità, ne resta scioccato e si chiede: come è possibile tutto questo?
Da anni sostengo che se abbiamo perso la speranza nell’educare gli adulti, che suppongono di essere già stati educati, di sapere già come vanno le cose e quindi non si informano, né si formano più, bisogna partire dai più piccoli, perché solo partendo dai piccoli è possibile immaginare un adulto educato e responsabile, impegnato nella tutela di sé, degli altri, della natura.
Se qualche ragazzotto, che oggi ha sedici anni, non è mosso dall’imperativo della tutela ambientale, significa che non c’è stata educazione o che è stata fatta male, insomma che qualcosa non è andato. Perché se spiego a un giovane che la microplastica che finisce nel mare alla fine rientra nella catena alimentare, e quindi nella sua pancia, solo un idiota o un barbaro può continuare a far finita di nulla.
Partire dai bambini significa quindi coltivare, giorno dopo giorno, la speranza e la bellezza nei loro cuori.
Un bambino, forse meglio di un adulto, sa meravigliarsi della bellezza del creato, quantomeno la sa scrutare con occhio limpido, capace di coglierne la grandezza e il mistero. Proprio per questo ogni danno perpetrato contro di essa suona alla sua mente come una bestemmia, un’offesa tremenda, una mancanza di rispetto terribile. In un certo senso lo sconvolge.
– Maestro! Ieri al parco ho visto una carta per terra! – mi dice un bambino tutto teso, con gli occhi sgranati. Pare sconvolto. Io mi sarei forse limitato a dire: – Guarda che incivili.
Lui no invece, ne è dolorosamente colpito. Così come molti altri compagni.
Questa loro capacità di cogliere il dramma di certe azioni è il risultato dell’essere bambini unito alla forza dell’educazione.
In questo senso, con le classi seconde in cui insegno, abbiamo sviluppato un percorso di ecologia durato quasi due mesi (una lezione a settimana da 2h), includendo anche alcuni spunti decisivi della Laudato sii di papa Francesco, che ha finalmente aperto gli occhi a quanti pensavano che il cristianesimo fosse votato al massacro del pianeta.
Alla base di questo percorso, come una musica di sottofondo, c’è stata sempre l’antropologia cristiana, il cosmo come dono affidato all’uomo, che ha il dovere di custodirlo, di utilizzarlo senza usurparlo, per consegnarlo, migliore, alle generazioni future. In questo modo abbiamo altresì avviato un ragionamento sul fatto che il creato non è nostro, che esso ci è solo affidato, dato in gestione, che non è una nostra proprietà.
Questo cammino attraverso testi, immagini, riflessioni, il robottino Wall-e, ha acceso un senso civico in questi piccoli che si poteva cogliere anche solo guardando i loro occhi e ascoltando le loro voci.
Da quando ne abbiamo parlato si è accesa in loro una buona volontà per cui ora, a ricreazione, raccolgono carte, cartine, cartacce che trovano in giardino e le conferiscono correttamente. Seminano di tutto, anche il mais dei pop-corn, il semino (o quello che loro credono tale) caduto dall’albero di tiglio. Se trovano un ramo spezzato, fanno una buca e lo piantano. Irrigano tutto e anche dove c’è terra arida e dura, loro versano acqua in abbondanza. In due parole: sono meravigliosi!
Questi bambini, educati e responsabilizzati alla tutela del Creato, ora sembrano personaggi mitici di una parabola evangelica, proprio perché seminano senza badare troppo al terreno e irrigano anche se in quel punto non c’è un filo d’erba. Non si chiedono: – Nascerà qualcosa? – ma dicono piuttosto a sé stessi e ai loro compagni: – Qualcosa nascerà.
Non voglio essere troppo idilliaco. Non tutti hanno capito allo stesso modo e non tutti saranno attentissimi alla questione ecologica, ma vorrei vedere gli adulti con un tale ardore e una simile speranza di migliorare le condizioni del nostro pianeta! Il mondo cambierebbe in un paio d’anni.
Alla fine di questo cammino sull’ecologia ho consegnato a ciascuno di loro una medaglia e un diploma in custodia del Creato, con annesso Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi, così, per non dimenticare che il cristianesimo e la Bibbia sono per la tutela integrale del cosmo e non per il suo sfruttamento indiscriminato. Se nei secoli questo è avvenuto, la colpa va imputata a coloro che hanno utilizzato la Sacra Scrittura per scopi che le erano contrari.
Tornando ai miei bambini (perché un insegnante può avere dei figli a casa, ma poi ne ha anche a scuola), chiamandoli uno ad uno alla cattedra, chiedevo, con tono solenne:
– Prometti di difendere la natura e di averne cura?
Tutti promettevano, chi facendosi la croce sul cuore, chi stringendomi la mano. Alcuni però, presi dal senso di responsabilità che dipendeva da quel diploma, non rispondevano nulla alla mia domanda, erano emozionatissimi e dovevano cercare il fiato da qualche parte nei loro polmoni.
Ringrazio il buon Dio di avermi voluto insegnante di religione nella scuola primaria, vocazione troppe volte vista con superficialità perché di religione e nella scuola primaria.
Io ne sono semplicemente grato, perché tra le centinaia di cose belle che mi ritrovo a insegnare ogni giorno, c’è anche questo fatto di educare alla bellezza cosmica, che diventa un educare alla bellezza in un significato più ampio. E ditemi: è poca cosa?