di Alberto Trevellin
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché Tu sei con me (Sal. 23,4)
PRIMA
L’altro giorno, martedì 4 settembre 2018, ho scoperto di avere un amico, un ospite inatteso, dal nome singolare, filorusso, di stampo sovietico sicuramente. Pare il nome in codice di uno degli agenti che si potrebbero trovare su uno dei tanti film o libri di spionaggio.
Mi stava sempre addosso, senza farsi vedere, pungolandomi la schiena, da dietro, ma vai tu a sapere che è uno che si vuole far conoscere.
Il mio amico qua, si chiama Bosniak 4 ed è un tumore renale, a questo stadio maligno all’ 85-100%.
Ora, sentirsi dire di avere un tumore è certo una delle cose più terribili che possano capitare, tuttavia… c’è una buona notizia: il tumore è cistico, le cellule tumorali, se l’esame istologico lo confermerà, sono chiuse lì dentro; inoltre non ha invaso il rene, quindi non me lo toglieranno, forse solo quel tanto che basta per rimuovere la ciste; pertanto, una volta estratto l’amico Bosniak, dovrei avere chiuso, nemmeno radio o chemioterapia mi hanno detto.
Io, se non fosse per il mal di schiena, mi sento in gran forma, in ottima forma direi. Dieci giorni fa ho camminato per tre giorni, 40km in tutto, in alta montagna, sul Lagorai, con il mio amico Stefano e l’altro amico, quello che non sapevo ancora essermi così vicino.
Voglio dire una cosa: non ho pensato un solo istante “perché Dio?” e qui si aprirebbe tutta una discussione di carattere teodiceo che non finirebbe più. Quesiti, dilemmi, tentativi di risposta sul male.
Il male non ha risposte. “Perché Dio?”, qui Dio non c’entra niente, questo sento e testimonio, perché se Dio è buono, e non potrebbe essere altrimenti se no non sarebbe più lui, allora il male non lo riguarda, è un’altra cosa, che non dipende da lui. Se lo accusassimo, come fanno alcuni, di non aver partorito una creazione perfetta ma soggetta al male e che quindi il male stesso dipenderebbe da lui, allora non staremo più a parlare di Dio, ma di un essere malvagio, perché nella sua onnipotenza non è riuscito ad evitarlo.
“Sì, ma lui potrebbe evitarlo”, dicono alcuni, e a volte lo penso anche io, turbato e con i denti stretti, ma nel mio caso sento solo questo: Dio non c’entra niente, anzi, Dio è con me. Sento che con il male lui non ha nulla a che fare, non so spiegarlo, non so andare a fondo del problema, ma sento chiaramente che il male è a lui estraneo.
Non sono arrabbiato, né deluso, né depresso. Qualche superpsicologo potrebbe dirmi: “E’ l’uomo che si attacca con forza alla vita.” E sia! Di certo non voglio deprimermi, né andare in giro con la faccia triste. Ho un tumore sì, però c’è gente che sta molto peggio, gente che lotta con tumori più gravi, gente che è già in metastasi. Non solo. Ci sono mamme che oggi hanno visto morire i loro figli, uomini e donne che non mangiano da giorni, ragazze yazide o rohingya che vengono stuprate da orribili uomini in qualche squallida prigione. C’è una mia amica, che dopo tanti anni è stata lasciata dal fidanzato perché voleva un figlio. C’è mio zio, che da anni soffre di diabete e ogni giorno si deve iniettare quattro o cinque volte insulina nelle vene.
No, il mio male non è così grave. Nonostante questo chiodo piantato nella schiena, non posso e non devo lamentarmi di nulla… forse era peggio il mal di gola che l’inverno scorso mi ha debilitato per un mese.
Sono fiducioso, sereno, mi sento più forte, mi dico “potresti morire presto”, ma in fondo al cuore mi rispondo (o è qualcun altro a suggerirmelo?) “è impossibile, stai tranquillo”.
Ma ecco gli occhi lucidi di mia moglie, quel volto preoccupato, ma saldo, fisso con la mente e con il cuore all’episodio evangelico della tempesta sedata, nostro cavallo di battaglia da mesi.
Nel miracolo della tempesta sedata gli apostoli sono preoccupati che la barca vada a fondo, mentre Gesù dorme tranquillo… Ma dormiva davvero o metteva alla prova la loro fede?
Lo svegliano… Ma perché lo svegliano? Sono preoccupati, eppure confidano in lui, che possa placarla, mettendo fine a quel terrore, altrimenti non l’avrebbero svegliato. È una fede strana la loro, una fede preoccupata che, per Gesù, non è abbastanza grande… “Non avete ancora fede?”, dirà loro dopo aver fatto tornare il sereno. Sono uomini di poca fede, il maestro glielo ribadisce numerose volte nel Vangelo.
Confidano, ma non si fidano totalmente, lo svegliano pensando “vediamo se lui può qualcosa” e allora Gesù, con quel briciolo di fede, fa tacere il vento.
Ci verrebbe da dire: “Che stolti! Non si fidavano?! Gesù era lì con loro!”. Ma così dicendo, dimentichiamo che per loro era tutto nuovo. Gesù era certamente un uomo ma, nonostante i miracoli, era davvero Dio? In molti ci crederanno solo dopo la Risurrezione.
Cosa capivano di lui? Cosa potevano capire, loro, che erano come lattanti all’inizio di una nuova vita?
Noi abbiamo la fortuna di essere venuti dopo, duemila anni più tardi di quel Maestro. Questo ci aiuta, ci avvantaggia a capire meglio quello stesso mistero, perché sappiamo già come va a finire; è questo il Vangelo, la buona notizia. Per gli apostoli e tutti gli altri discepoli la strada non era nemmeno tracciata, bisognava solo fidarsi e mettersi dietro ai passi di quell’uomo divino.
Per cui se noi, oggi, duemila anni dopo, non impariamo nulla dall’episodio della tempesta, allora possiamo buttare il Vangelo, perché non serve a nulla, non migliora la mia vita, né fa crescere in me una maggior fiducia in Dio.
Se gli apostoli avessero letto la storia della tempesta da qualche parte, avrebbero avuto ancora paura, loro, che avevano Gesù a un palmo di mano?
Ma d’altra parte per cosa è stato scritto il Vangelo, se non per insegnarci a non aver paura di nulla, nemmeno della morte?
È così che voglio affrontare la tempesta, o quantomeno questo mare grosso. Voglio immaginarmi su quel pezzo di legno, con le onde che sbattono da ogni lato, il vento furioso, disteso su una mezza stuoia a dormire, a provare a dormire, con il sorriso di chi è sicuro, tanto lui è lì, dall’altra parte della barca, a un palmo di mano.
Mi pare di vedermi, dall’alto, disteso con le mani dietro la nuca. Il maestro sta dall’altra parte. Abbiamo gli occhi chiusi e un sorriso ebete. Le onde sembrano rovesciare la barca. Il gioco è questo: ti fidi o no?
Non affonderò e se affonderò, perché la volontà del Padre era un’altra, allora affonderò con lui e dopo tre giorni…
Qualche giorno fa sono stato da un donna, una signora anziana con dei doni particolari, mi limito a dire questo. Mi ha consigliato alcune preghiere che non conoscevo e l’utilizzo dell’olio benedetto, perché la materia non è staccata dallo spirito, almeno nel cristianesimo, anche se molti non ne sono convinti.
Mi faccio il segno della croce nelle parti del corpo in cui ho più male e recito quelle preghiere che già sento così potenti. La preghiera è potenza, energia, non una nenia al vento per vecchie e ignoranti.
Sapevo che sarei stato operato i primi di ottobre, forse verso la metà, ma non ne ero così certo, dovevo aspettare la telefonata da urologia. Mi è arrivata questa mattina, mentre ero in classe. Il telefono vibrava con insistenza, così ho guardato: era l’ospedale. Ho risposto, chiedendo scusa ai bambini e pregandoli di far silenzio. La segretaria mi dice che la data è fissata per il primo di ottobre, fra dieci giorni circa.
Tornato a casa mi arriva un messaggio da mio papà, sempre attento ai santi del giorno, in cui mi dice che il primo di ottobre è santa Teresa di Lisieux. Santa Teresa di Lisieux è una santa che io amo. Ci sono alcune foto di lei, una in particolare di quando è piccola, in cui il suo volto di bambina è così penetrante, che ti fissa forte ed è così dolce che non si può non amare.
Bene, quando mio papà mi ha detto che quel giorno si ricorda santa Teresa, subito mi è venuto da piangere, spontaneamente e ho percepito che questa santa mi ha preso sotto la sua protezione. Lo sento davvero, la sento vicinissima e mi sembra che il mio corpo vibri di queste parole: “Non preoccuparti, ci sono io, ti proteggo io”. Che sensazione strana ed eccezionale! Non avevo mai provato nulla di simile prima d’ora… la vicinanza concreta di un santo! di Dio sì, lui lo sento sempre, ma di un santo no, quello non mi era capitato.
Non mi vergogno di dire queste cose, che per alcuni possono sembrare delle stupidaggini o al massimo delle suggestioni. Io credo nella potenza e nell’intercessione dei santi. Perdonami Lutero, ora sarai d’accordo anche tu con queste mie affermazioni.
Oggi mi hanno richiamato da urologia dicendomi che l’intervento sarà il tre ottobre, non più il primo. Va beh, un po’ mi dispiace, ma ciò non toglie che continuo a sentire santa Teresa vicinissima.
Nuova telefonata da urologia: intervento rispostato al primo ottobre. Ancor più forte sento la presenza di questa meravigliosa donna e mi torna alla mente un fatto avvenuto la sera in cui tornando dall’ospedale, dopo che mi fu annunciato il tumore, andai a messa con Greta. Ancora provato da quella notizia, da quell’urto che mi aveva fatto traballare, durante la consacrazione mi affidai completamente a Dio, dicendogli che facesse lui, che la sua volontà, per quanto potesse risultare misteriosa e assurda, doveva necessariamente essere la migliore.
A quel punto vivo un’esperienza che qui tralascio, perché troppo intima, troppo forte. A spiegarla a parole si rischierebbe di far pasticci, di essere fraintesi, di far sorridere qualcuno, mentre la faccenda è estremamente seria.
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DOPO
Ora che sono a casa, rientrato dall’ospedale, i miei pensieri vanno ai giorni che precedevano l’intervento.
Man mano che si avvicinava la data, aumentava in me la sensazione dell’abbandono, o meglio, dell’abbandonarsi. Iniziavo a capire di trovarmi nella tempesta, benché fuori fosse sereno. E tuttavia, pur nella tempesta, lì, in mezzo al mare, avevo una grande luce dentro di me, per cui il sole brillava comunque, sia fuori che nell’ animo. Scrutavo l’orizzonte con il volto di chi non ha più nulla da temere, nemmeno la morte, perché una forza superiore lo guida, lo sostiene, più esplicitamente lo tiene per mano, come un padre o una madre.
Ricordo che da piccolo i miei genitori mi tenevano per mano, papà da una parte e mamma dall’altra e mi facevano dondolare e fare capriole… e non avevo paura di niente, di niente! Perché c’erano loro. La morte non esisteva, il dolore era una cosa lontana, la povertà era la normalità, non avevo alcun desiderio, alcuna brama di possedere cose, ma solo di vivere al riparo sotto le loro ali. E mi bastava, era tutto quello che potessi volere, allora. Poi si cresce e molte cose cambiano.
Ma proprio durante questa malattia, consapevole di avere in me un motivo in più di morte, una doppia bomba pronta ad esplodere, ecco tornare quella sensazione, di essere protetti, non soli, non abbandonati. Certo tutto il mio ragionare, il sapere accumulato negli anni, i libri letti, lo studio, a volte mi sono d’intralcio a questo lasciarmi andare. Spesso vorrei non sapere, restare un ignorante per non farmi pare mentali, inganni raziocinanti, elucubrazioni infinite e superbe, che suppongono di dare un senso al tutto o quantomeno di cercarlo, e so bene che c’è, ma so anche che non mi appartiene, che è più in là di me. E tutto questo sapere gravoso, benché tante volte mi avvicini al buon Dio (anzi, posso affermare senza ombra di dubbio che la teologia e lo studio delle sue materie hanno aumentato la mia fede), questo sapere a volte mi è d’intralcio, come una corda tra i piedi che m’impedisce non solo di correre, ma anche solo di camminare al suo fianco, di diventare, tornare bambino pur da adulto.
È stata proprio la tempesta a liberarmi dei troppi orpelli, delle troppe paranoie. Il mare è grosso e vasto, immenso rispetto all’uomo… Quante volte diciamo: “Una goccia in mezzo al mare”? Eccomi lì, una goccia nel mare e una goccia non può opporsi alle onde del mare! può solo diventarne parte. Per cui nessuna rabbia mi spingeva contro le onde grosse, che non avrei saputo affrontare, che mi avrebbero tirato giù; ma la coscienza di lasciarmi andare, di abbandonarmi a quella massa d’acqua contro cui non potevo nulla, quello sì che mi faceva galleggiare.
Intanto si diffondeva la notizia della malattia, per quanto anomala e di grazia fosse: un tumore chiuso in una ciste, basta toglierlo senza romperlo.Già un miracolo! Sì, non una botta di culo, una fortuna immensa.
Che cos’è la fortuna? Chi me lo sa spiegare? Chi è? Per me non esiste la fortuna, esiste solo il buon Dio. Per me non capita nulla per fortuna, ma solo per grazia e la mia era già una grande grazia, un immenso miracolo, per il quale non potevo che ringraziare.
Ma bisognava anche pregare, tanto, insieme.
Grazie ad amici, genitori, parenti si è creata una rete di preghiere mondiale. Persone che io non avevo mai incontrato, né incontrerò mai, gente miscredente, comunità di suore, eccole lì, in macchina, al lumicino di una candela la sera, in chiesa in solitudine o con le consorelle, stese a letto prima di chiudere gli occhi… eccole lì, a pregare per me, a dire: “Signore, ti prego per Alberto… Maria, ti prego per Alberto… Dio, se ci sei, se esisti, aiuta Alberto”.
Pur non conoscendo questi figli e queste figlie di Dio, questi esseri umani che non si arrendono al male, ma che in tutta la loro fragilità, con la semplicità e la potenza di una preghiera perseverano nel bene, credendovi ancora, pur non conoscendoli, io sentivo la loro vicinanza, mi rendevo conto della pioggia di preghiere che stavano cadendo su di me, come una benedizione che veniva da loro, proprio da loro, da questi fratelli e da queste sorelle sparse nel mondo, mai visti né sentiti. Potevo percepirla, la forza di quelle preghiere, sentire che penetrava in me donandomi quella serenità e quell’equilibrio che in molti mi facevano notare. Quanto dipendeva da me quella serenità, quella pace? Veniva dalla mia consapevolezza di lasciarmi andare o da queste preghiere sconosciute? Ecco, una serenità interiore non si costruisce mai da soli, si comincia da sé, la si cerca, ma ci vuole l’aiuto di qualcun altro, perché un conto è provare a spostare una nave da soli e altra cosa tirarla in dieci, cento, mille.
Dopo Into the wild è andata di moda quella frase “la felicità è reale solo se condivisa”. E con il dolore? Non si può dire che non sia reale se non viene condiviso, ma di certo condividerlo, rendere partecipi gli altri non solo di ciò che ci fa stare bene, ma anche di ciò che ci fa soffrire, ci sgrava un po’ del suo peso, ci allevia un po’ di dolore, che in parte se ne va da noi. È come dire: “Fratello, sorella, aiutami un po’ tu con questo, portane almeno una briciola, anche solo una mia parola o una lacrima, e mi sentirò un poco più leggero”.
Se non avessi detto al mondo che avevo un tumore, sarei stato così bene? Avrei raccolto quelle preghiere?
Alcuni mi facevano capire che di certe cose bisogna parlarne con delicatezza, riservatezza, che si deve stare vaghi, in poche parole che non si dovrebbe dire nulla. Ma perché? È meglio tenere tutto il dolore e la paura per sé o è meglio cercare una spalla su cui posarsi e piangere, lasciando scivolare via un po’ di quel dolore?
Forse, stoici come siamo cresciuti, come ci hanno educato, le lacrime le teniamo solo per il cuscino, nel buio della nostra camera, al massimo per nostra moglie o per nostro marito, perché sono un’onta, un crollo della nostra potenza, la vergogna di chi non sa più tenere completamente sotto controllo la propria vita. E se anche non ci sono lacrime, nemmeno le parole facciamo uscire dai nostri cuori, dimentichi che quel fratello che ho di fronte, quell’essere umano che mi è vicino, è nella mia stessa condizione di fragilità ed è lì per accogliermi. Quale uomo all’amico che gli confessa un dolore, una malattia, risponde con una maledizione?
Credo di aver imparato questo, che il dolore non vada tenuto tutto per sé, perché intorno a noi, anche nelle persone più inaspettate, c’è qualcuno che si prenderà cura di noi, che ci sosterrà, anche solo con una, ma sempre potente, preghiera.
Non c’è nulla di cui vergognarsi, la condizione umana non è la potenza, l’eroismo, ma la fragilità, la debolezza intrisa nella nostra carne e nelle nostre anime, fino alla fragilità per eccellenza che porta comunemente il nome di morte. Non sono potente, non sono eroico, per quanto lo desideri; sono fragile, in balia di eventi che mi oltrepassano e che dicono tutta la mia fragilità. Allora se c’è una potenza nell’uomo, come diceva san Paolo, essa sta nel rendermi conto della mia fragilità, nel rendermi conto di non farcela da solo e di aver bisogno di qualcuno, di un fratello e di una sorella, e ancor di più di Dio. È paradossale, “quando so di essere debole allora sono potente, perché mi affido a Dio”.
Me ne rendo conto soprattutto ora, mentre convalescente stendo queste righe. A quasi un mese dall’operazione riesco a stare a malapena in piedi, con la ferita che mi tende come un arco e la schiena che si carica di questa scomoda posizione. Se faccio mezzo chilometro in più di camminata, un sonno pesante mi travolge e non desidero altro che il letto, ogni piccolo gesto sembra bruciare il doppio dell’energia che possiedo, tutto, inaspettatamente, mi è più faticoso. Sento la gravità di questo corpo, la sua stanchezza, i suoi sussurri, che m’invitano a desistere da ogni piano che avessi in mente, da ogni repentino recupero. In questo momento il mio corpo è un medico che mi parla dalla mia stessa carne. Non m’invita a star tranquillo, a riposare, ma proprio mi obbliga, mi dice che non ci sono alternative, se non quella di star peggio che prima.
Ricordo di aver detto ai bambini: “Ci rivediamo il 19, massimo a fine ottobre”. Invece eccomi qua, ancora dolorante, debole come credo di non esser mai stato, capace di affaticarmi solo a star seduto troppo a lungo in cucina o a parlare con qualche amico per più di un’ora.
Questa, lo ammetto, non me l’aspettavo.Credevo di recuperare nel giro di una decina di giorni. Non sapevo nulla.
Di nuovo quindi l’abbandono, non mi resta che quello, lasciarmi guidare dal mio corpo, dalla malattia stessa, che conosce bene la strada per la guarigione, che sa cosa deve fare e me lo comunica, a suo modo. Non si tratta di medicine, in questo caso, ma di uno stato fisico e mentale, chiamato riposo.
Ma questa potenza che colgo nella debolezza non è tanto un lasciarsi travolgere dall’onda, un farsi schiantare, ma divenirne parte, diventando onda noi stessi. Non è una storiella rosa, questa, una bella frase sdolcinata su cui versare una lacrimuccia, perché io quella potenza, quella forza serena l’ho sentita tutta, vivente in me, presente come mai prima, capace di far sparire anche la paura della morte.
Dovremo vivere così, abbandonati totalmente, totalmente, nelle braccia di un Padre che vuole proprio questo abbandono, non perché lui sia superbo e voglia fare al posto nostro come se volesse denigrarci perché incapaci, ma perché lui vuole fare insieme a noi, né lasciandoci soli, né facendo da solo, ma insieme, per amore.
Ripensando al giorno in cui mi venne detto che cosa mi aspettava, in ospedale, ho subito sentito il bisogno di andare nella chiesa che c’è al pian terreno. Lì, pur avendo già in mente di tener duro, di non temere, perché Lui era con me, una polla di lacrime mi è uscita irrefrenabile dagli occhi. Non ho potuto trattenerla. Perché piangevo? Perché avevo paura? Perché la notizia era più grande di quanto potessi sopportare? Non temevo per me, ma per le mie bambine, che sono state il mio primo pensiero: “Come faranno senza il papà?”. Quel pianto era per loro, perché capii che potevano perdermi e il trauma di un bambino che perde un genitore è indelebile, ce lo si trascina per tutta la vita.
Il problema non è per chi va, ma per chi resta e ha ancora bisogno di te. La questione non è aver paura di morire, per quanto quel momento faccia vibrare l’uomo al solo pensiero, ma temere per chi lasciamo, sapendo che per alcuni siamo ancora indispensabili, necessari. Io sentivo di essere necessario solo per le mie bambine, gli altri, per quanto dolore avessero provato, sarebbero stati grandi e avrebbero capito che dove me ne andavo sarei stato meglio di tutti loro messi insieme, che da lì li avrei aiutati meglio che se fossi rimasto. Ma le mie bambine… le mie bambine… che cosa si sarebbero ricordate? Cosa sarebbe rimasto in loro dell’insegnamento che ho potuto darle finora? Probabilmente poco o nulla. Certo gli insegnamenti e l’amore sarebbero rimasti, in qualche recondito spazio dell’anima, ma di me, della mia figura, della mia voce, del mio sorriso, di tutto l’amore immenso che provo per loro, cosa sarebbe rimasto? Questo pensiero mi ha accompagnato fino al momento in cui sono entrato in sala operatoria. Sotto i ferri si può anche morire e in quel momento mi sentivo pronto anche a quell’eventualità e fu proprio lì, sotto l’effetto di quel pensiero che capii che le bambine sarebbero cresciute, bene, anche senza di me, che dovevo lasciarle andare, perché per quanto fossero figlie mie, non le possedevo, erano figlie della vita, soprattutto avevano un Padre più grande di me su cui avrebbero potuto contare. Pensai che Greta avrebbe trovato un lavoro, le avrebbe amate più di prima, raccontandole di me e di quanto le avessi amate. Loro mi avrebbero cercato nel silenzio di qualche foto e guardando i miei occhi e le mie labbra sorridenti avrebbero capito quanto le amavo, quanto fossi grato e pieno di questa vita. Magari avrebbero trovato qualche mia pagina, come quella che sto scrivendo, e mi avrebbero conosciuto un po’ di più, forse si sarebbero sentite felici di aver un papà così.
Avevo pure pensato di fare una serie di filmati, per quando sarebbero cresciute, in cui avrei raccontato di me e mia moglie, dell’amore che ci aveva abitato sin da quando eravamo bambini. Avrei detto qualcosa su come riconoscere, evitare e combattere il male, su come fare il bene, sempre, su come amare… ma non ho fatto nulla di ciò, mi sembrava di esagerare, quasi di non fidarmi del fatto che sarei uscito salvo da quella sala.
Mi sento un po’ a disagio a scrivere queste cose perché, come ho già detto, la mia non era una situazione così grave e a morire bisognava impegnarsi davvero. Eppure questo avvenimento importante della mia vita, mi ha portato a riflettere profondamente su alcuni aspetti fondamentali dell’esistenza, aspetti su cui prima avevo riflettuto solo in forma generica, senza soffermarmici troppo.
Come con mia moglie, con la quale cercavo di sdrammatizzare dicendole: “Ecco, muoio e tu resti vedova, ti trovi un altro”, oppure: “Guarda di non trovarti un altro!”, “Come fa una donna di trent’anni, di una bellezza sublime, a rimanere da sola?”. Lei mi guardava quasi piangendo e dicendomi che non ero altro che uno stupido idiota.
Ma anche in questo caso, per quanto innamorato fossi e per quanta gelosia potessi provare nel pensare a mia moglie insieme con un altro, capivo che anche lei, questa donna affidatami da Dio, non era mia, non mi apparteneva, non era un mio possesso. L’avrei dovuta lasciare andare e avrebbe fatto quello che si sarebbe sentita di fare: amare le figlie più di prima e magari trovare un altro uomo che l’avrebbe amata.
Come potevo avere la pretesa di dirle che non doveva trovarsi un altro uomo, anche nel caso in cui fossi morto? Non era e non è la mia schiava, non posso ordinarle niente. È mia moglie, una donna libera, che mi appartiene solo nella misura in cui lo ritiene. Non è roba, è carne e spirito umano, figlia di Dio, donatami da lui stesso per averne cura, non per obbligarla ad alcunché… figuriamoci da morto!
La verità è che su questa terra nulla ci è dato in possesso, ma in affido. Che è ben diverso. Tutto è dono e grazia, perché ne abbiamo cura e amiamo, senza abusarne o distruggere quanto ci sta tra le mani.
Nemmeno la mia stessa vita mi appartiene, per il semplice motivo che il mio essere qui non è dipeso da me, non è stata una mia scelta. Per cui non io mi sono infuso l’alito dell’esistenza, ma Dio, attraverso quei sacri esseri che sono i genitori, che concorrono nel rendere reale non solo il loro desiderio, ma anche quello divino.
Nulla è in nostro possesso, ci illudiamo che sia così, ma poi scopriamo di dover lasciare tutto e tutti.
Nulla ci appartiene, tutto è dono.
Il male, di cui ci riempiamo gli sguardi e i cuori, è poi così assoluto? O arriva come una furia e ci devasta, ma poi, senza accorgercene, più si allontana da noi, più noi ci riappropriamo del bene e della vita, e così di lui alla fine non rimane che un ricordo, magari sbiadito? Dove sta la sua forza se poi non vediamo l’ora che giunga il momento per fuggirlo e dimenticarlo? Che ce ne faremo se non saprà farsi amare? E un giorno non lo osserveremo, voltandoci indietro nel tempo, come una di quelle cime che ci hanno fatto patire, ma che hanno favorito uno nostro sguardo nuovo e più attento sull’orizzonte delle nostre esistenze?
In questi giorni di convalescenza, con questa ferita profonda che piega il mio corpo e questo mal di schiena che è tornato impavido a darmi battaglia, sto con la mia famiglia e niente al mondo mi pare più necessario di essa.
La mattina sento mia moglie che si sfila via dal talamo senza far rumore. Si sveglia con l’aurora, lei, guarda il giorno sorgere prima che il sole si affacci sul campo dietro casa.
Dopo di lei è la voce di Teresa, ancora così tenera e innocente. Sento i suoi passetti in giro per la casa, le sue paroline che racchiudono significati in pochi versi uniti a sguardi.
Ecco la grande, ma ancora così piccola, che mi si avvicina e mi porge una boccetta di olio benedetto.
“Papà…” mi dice fissandomi, mentre ancora me ne sto steso sotto le coperte, pigro ad uscire. “Papà…”. Vuole un segno di croce, sulla testa, sulla bocca, sul cuore. Apro la boccetta, mi ungo il pollice e la benedico. “Vai amore mio, il sole splenda su di te, sii buona e ama tutti”.
Poi è il silenzio della casa e dei miei momenti, di preghiera, lettura e scrittura.
Ma eccole di nuovo, tornano verso pranzo, una, due… tre nel pomeriggio. Eccole con la loro gioia, i loro perenni sorrisi, i loro giochi inventati. Eccole che corrono come pulcini tra le braccia della mamma, ma anche da me, più di quando tornavo da lavoro… Cercano un bacio, un abbraccio, una coccola dal loro papà.
Così fino a quando il giorno si congeda e lascia il passo alla notte. E di nuovo preghiere. E di nuovo benedizioni. E la casa si riempie di questo amore, che sgorga da dove? Da dove? Lo so bene da dove, lo sappiamo tutti in verità.
Sento che vorrei vivere così tutta la vita, e chi non vorrebbe? Che nient’altro mi serve, nessuna cosa od orpello, nessun grande viaggio o esperienza che sia, mi basta questo amore, queste bambine e questa moglie, nient’altro, questo mi basta e mi riempie di una gioia e di una pace che da tempo non provavo.
Eccolo, il male di cui dicevo, eccolo trasformato in bene, eccolo convertito.
Avevo pensato che durante il periodo di riposo mi sarei svagato con qualche libro e qualche film, aspettando pazientemente il ristabilirsi del corpo, azioni, queste, che effettivamente faccio. Ma non avevo intuito che ciò che mi avrebbe risanato maggiormente sarebbe stato proprio l’amore della mia famiglia, di cui anche ora mi sembra di sentir gonfiare la nostra casa come il vento sulle vele.
Il Natale è alle porte, ormai sono tre mesi che sono a casa da lavoro. Stavo recuperando bene, molto bene, ma poi un movimento brusco per fermare mia figlia che altrimenti sarebbe caduta dal letto e un tentativo precoce di tornare a correre, hanno infranto la gioia di questa guarigione al galoppo. Sono sorti nuovi mali, satellitari alla ferita, dolori addominali, spesso lancinanti. Cosa sarà successo? Avrò stirato qualche muscolo?
Ho dovuto così ricominciare poco per volta, evitare i pesi, nuovamente. Chissà per quanto ne avrò, a questo punto. Soprattutto mi chiedo se tornerò effettivamente come prima, se questi dolori se ne andranno davvero per sempre. “Tempo al tempo” mi dicono tutti, io annuisco con un sorriso di conferma.
Tuttavia dovrò tornare a lavorare dopo le vacanze, altrimenti non recepirò più lo stipendio e questo ovviamente non me lo posso permettere perché tengo famigghia, e già questo mese ne prendo la metà. Grazie a Dio c’è la tredicesima. Uno deve sperare e pregare che la sua salute non venga mai meno, guai ammalarsi!, perché ora come ora, per un precario come me, è una disgrazia stare male troppo a lungo.
Tralasciando quest’abbozzo di polemica socio economica, voglio tornare alla mia salute, che appunto è di nuovo cagionevole, mi basta un niente e il male riaffiora, limitandomi un po’ in tutto.
Pochi giorni prima dell’intervento dicevo alle mi colleghe: “Tornerò quando sarò in grado di correre 10 km senza problemi!”, invece tornerò senza saperne fare uno di corsa. Però cammino, faccio 6 km un giorno sì e uno no, sempre attentissimo ai dolori in agguato.
Questa camminata di un’ora, che mi porta sulla strada, a ridosso dei campi invernali, con il freddo pungente e l’immancabile nebbia della pianura padana, mi sta salvando e disvelando dimensioni importanti e per me fino ad ora sconosciute, o meglio, mai approfondite.
È nato tutto da Storia di un’anima di santa Teresa di Lisieux. Glielo avevo promesso che l’avrei letto durante la convalescenza, così ormai un mese fa mi ci sono tuffato e in una settimana ho bevuto questa perla della spiritualità cristiana.
Non voglio ora fare una sintesi dell’opera di Teresa, ma accennare ad un punto che per me è stato fondamentale e che ora mi sta cambiando radicalmente.
Verso la fine del libro, la santa di Lisieux, mia protettrice durante l’operazione, confessa di fare una fatica tremenda a recitare il rosario e di preferire lo slancio del dialogo, dove può aprire totalmente il cuore ad Abbà.
A volte si dice che per la vita spirituale non servono i libri, si vede che è una strada d’altri perché nel caso mio non è affatto così, ed ogni libro, ogni buon libro per la precisione, nella mia vita è un passetto in più nell’affinamento della vita interiore.
Quando ho letto quelle pagine ho detto: “Fermi tutti! Qui c’è qualcosa che non va!”, invece Teresa diceva proprio così, della fatica di pregare con le Avemaria, alle quali comunque non rinunciava. Mi stupiva soprattutto che una santa come lei potesse dire una cosa del genere, eppure era vero e questo mi ha sollevato incredibilmente, perché anche io, che mi considero un convertito a Medjugorje, prego il rosario quasi ogni giorno… ma quanta fatica! La mente vaga, mi distraggo, penso ad altro e mi stanco inutilmente.
Non rinnego questa forma di preghiera, a cui sono affezionato e alla quale riconosco un enorme potenza. Ci mancherebbe che la rinnegassi! Assolutamente! Però ho trovato quest’altra via per incamminarmi al buon Dio, si è aggiunta alla mia spiritualità e non la lascerò più.
Cara Teresa, quelle tue righe mi hanno stravolto. In meglio.
Da lì, da quelle pagine del dottore della chiesa, sono cominciati i miei dialoghi con il Padre, che semplicemente chiamo Papà.E’ un passaggio fondamentale passare dalla formalità di dire “padre”, che dà sempre una serietà eccessiva alla figura paterna (quante volte ai nostri giorni abbiamo chiamato nostro papà, “padre”?) al dire, senza troppi problemi o fisime varie, “papà!”.
Avevo parlato altre volte con Gesù e avevo già capito quanto quella fosse una preghiera più sincera e vera, per me, dello sgranare il rosario, che comunque, ripeto, non abbandono e che resta per me uno strumento di potenza contro il male sempre in agguato. Ma ho capito che devo dirlo in momenti di serenità e di concentrazione, quando posso davvero mettermi in silenzio e pregare Maria.
Forse dovevo passare per migliaia di Ave, prima di giungere a questa forma di preghiera profonda, a questo dialogo vero con Dio.
Qualcuno potrebbe dire che parlare con Dio non è altro che un modo di liberarsi di certi pesi o problemi, e che il fatto di parlare con qualcuno, che comunque non vediamo, giova alla salute psicofisica. Ma si faccia la prova, si provi a parlare con Dio e si sentirà, da subito e alla fine, che le proprie parole non sono state lanciate al vento, ma che vi era davvero un presenza viva ad ascoltarle come nessuno mai ci ascolterebbe.
Chi è pratico di questa forma di preghiera sa di cosa parlo, come sa bene di non parlare al vento, in una sorta di autoanalisi psico-spirituale, ma di porsi a fianco dell’Io sono, di chi c’è per davvero, vivo, in noi.
Ciò avviene, come accennavo, nelle mie camminate, dove da ormai venti giorni, per un’ora mi trovo a parlare a voce più o meno alta con Papà. Aspetto di passare il nucleo più grosso di case, perché se qualcuno mi vedesse parlare da solo mi prenderebbe sicuramente per matto. Superate quelle però, comincio: “Eccomi, Papà!”. E gli parlo, gli svuoto il cuore, gli racconto dei problemi che ho, gli chiedo aiuto per tanti amici. Lui mi si affianca e ho compreso il suo essere Dio della strada, Dio del cammino, Dio che si mette sulla via della nostra vita. Ci affianca, si fa presente come ad Emmaus, lungo il sentiero.
Quello che mi sconvolge di più è però il suo essere sempre lì. Non è tanto lui che si affianca, ma io, perché lui è sempre con me in realtà, dentro di me. L’ha detto Gesù, chiaramente: il Regno di Dio è dentro di voi. Di Dio, e quindi Dio stesso vive in noi. Basta chiamarlo, non è lontano, non è oltre il cielo, ai confini del cosmo, ma vicinissimo, anzi dentro di noi, vive in uno spazio che io non conosco, che non saprei indicare: mente, anima o cuore? Però so che c’è, e mi basta. C’è e mi ascolta, seriamente, a volte gli faccioqualche battuta e mi par di vederlo sorridere. Gli parlo anche in dialetto. Se si dilata bene il cuore, si colgono chiaramente anche certe risposte, altre sono meno limpide, forse le lascia a noi, perché ci vuole liberi e responsabili, come a dire: “Sei grande, sai bene cosa fare, vai e non ti preoccupare, io sono con te, sempre, lo sai”.
Due volte mi sono ritrovato a piangere come un bambino, fortuna che era sera e nessuno mi ha visto, altrimenti chissà cosa avrebbero detto vedendo uno piangere per strada.
È un fatto che non mi era mai successo con le orazioni “classiche”. Per cui ora dico: “Ma quanto potente e vera è questa forma di preghiera!”
Ora capisco cosa significa “pregare col cuore”.Per quanto tempo mi sono portato addosso questa domanda: cosa vorrà dire “pregare col cuore”? E tutti a dare risposte vaghe, imprecise, a parte gli esicasti, ma quella è un’altra storia.
“Pregare col cuore” è proprio questo mettersi a parlare con Dio, schiettamente, dicendo tutto, davvero tutto, anche le nostre nefandezze, vomitando i nostri demoni. Lui è lì per quello, mica perché vuole farsi adorare. Che Dio sarebbe un Dio che ci crea per farsi adorare? Mi pare piuttosto, sbirciando tra le righe del Vangelo, che egli sia il Dio dell’amore, che l’unica cosa che desidera è amarci totalmente e farsi amare (“mi ami Pietro?” Gv21,15-19).
Si parla con lui, che è una persona vera e viva, non un morto, e si apre il cuore. Aprendolo lui ci esce incontro, anzi era già lì.
Insomma, è la mia ora con Dio, per le vie nebbiose e fredde che passano per i campi. Un’ora di letizia e di ristoro impagabili.
E qui viene il bello: ma se io non avessi avuto un tumore e non fossi stato costretto a riprendere lentamente la mia vita, avrei scoperto tutto questo?
Il grado di serenità, di gioia, la capacità di osservare la vita e le persone con occhi di misericordia e di amore indescrivibile, li avrei mai raggiunti senza questo travaglio? Senza questo male?
È vero, adesso ho una ferita cheloidale terribile, dallo sterno a poco sotto l’ombelico, dolori che vanno e vengono per un nulla di troppo, che non so neppure se passeranno, ma tuttavia, e mi tremano le mani a scriverlo, mi vien da dire che forse questo tumore è stato una grazia, un dono, una benedizione più che una maledizione. Quasi mi sento di dire che è uno dei periodi più belli della mia vita, forse il più bello.
Senza le ferite che ora ho addosso, senza questo tumore che, grazie ai medici e al buon Dio, mi è stato tolto, ora non avrei questa vita spirituale nuova, questo sguardo nuovo sul mondo, sul cosmo intero.
Fatto ancora più straordinario è che per raggiungere questa nuova consapevolezza, questa spiritualità intensa, non sono dovuto andare da nessuna parte, non ho dovuto “fare cose, vedere gente”, mi è bastato andare per strada, con il sole fioco, il cappuccio tirato sulla fronte, tra i campi e l’asfalto e iniziare a parlare con Dio ed eccolo lì, nella campagna padana, a Limena, non in un santuario, ma in un’anonima stradina grigia. Eccolo lì, per la via, incamminato quanto me. Quindi non ho dovuto nemmeno fare chissà quali viaggi o chissà quali esperienze, no, era già tutto in me, Lui in me, tutto intorno a me, nelle persone che mi circondano. Dio non è fuori, ma dentro di noi.
Lo immaginiamo sempre lontanissimo e per questo inavvicinabile, irraggiungibile. Dio lontano. Un essere distante dalle nostre vite, il più grande menefreghista delle tragedie umane, dimentico di noi. Invece lui è qui! Nemmeno a due passi, ma proprio in me! Basta aprire la porta, lasciarlo entrare. “Dio abita dove lo si lascia entrare”, sospirava Martin Buber.
Adesso sento di aver questo scrigno tra le mani. Non c’è denaro dentro, pietre preziose, oro o quello di cui va in cerca il mondo, c’è solo ciò che di più essenziale dovrebbe esserci nella vita di un uomo: il suo rapporto con Dio, con colui che gli ha donato la vita, con quello che i cristiani chiamano Abbà.
Da questo rapporto, così intimo e vero, vero, scende a cascata ogni bene, dalla pace profonda del cuore alla capacità di penetrare il mondo con spirito nuovo.
E questo è un tesoro nei cieli, dove i ladri non scassano nulla e la ruggine è il colore della veste di un cherubino. Chi potrà privarmene, chi potrà portarmelo via?
Solo l’affanno di questa vita occidentale mi spaventa, questi ritmi forsennati, disumani, che non favoriscono minimamente una relazione sincera con Dio, ma che anzi sembrano opporsi ad essa con terribile forza. Ma stringerò questo scrigno e nessuno me lo leverà, anche perché non è uno scrigno qualunque, da tenere nel cuore è basta, è piuttosto uno scrigno che vive come una pianta, che necessita di essere curata, dissodata, sistemata giornalmente, solo così mostrerà i suoi tesori, i suoi frutti. È solo una questione di costanza insomma, nulla di più, di stare un’ora, almeno una, a parlare con Dio, non di Dio, ma con lui proprio, come Abramo e Mosè, come Gesù quando saliva sui monti o s’imbucava nei deserti.
Per cui, nuovamente, quello che si era presentato come un male, si è tramutato in bene. Il male è diventato una grazia. Il dolore si è tramutato in gioia e pace profonda. La mia vita è cambiata, in meglio, per sempre.
Lui, trasfigura ogni cosa.