C’è un’opera di Caspar David Friedrich che è forse rimasta maggiormente nell’immaginario collettivo Si tratta del Viandante sul mare di nebbia (1818, Hamburger Kunsthalle – Amburgo).
Per capire come il titolo sia stato felicemente intuito dall’artista, basta chiedere a dei bambini di descrivere l’opera, a patto che non gli si riveli anticipatamente autore e titolo. Sarà sufficiente chiedere loro cosa vedono. A più riprese si sentirà la parola “mare”… “mare”… “onde”.
I bambini, che nulla sanno del quadro, vedono un ambiente marino. Sta anche qui la maestria di Friedrich: riuscire a portare la placidità del mare in mezzo alle montagne.
Sulla scena, al centro, sta un uomo, un viandante appunto. Di lui non sappiamo nulla, potrebbe essere chiunque. Potrebbe essere l’uomo stesso.
Se ne sta fermo, calmo, sull’orlo di un precipizio. La postura è estremamente rilassata, lo si denota dalla decontrazione delle spalle, dalla posa leggera. Una mano in tasca, l’altra lungo il fianco. Non c’è tensione muscolare. Eppure è proprio sul precipizio, sull’orlo di un burrone.
Il paesaggio che quest’uomo si trova dinnanzi, deve necessariamente suscitare in lui meraviglia e contemplazione. È sempre la postura a comunicarcelo.
Il volto rimane celato, possiamo solo immaginarlo, ipotizzare una bocca mezza aperta, un lieve sorriso, gli occhi lucidi.
Egli non teme di cadere giù dalla roccia, perché è sicuro che quella lo sosterrà e che è in lui un potere, quello dell’ istinto alla vita, che gli impedirà di fare il passo fatale.
Fare quel passo, d’altronde, significherebbe non poter più contemplare la bellezza spalancata davanti ai suoi occhi. Questo viandante si ferma lì perché non vuole perdere questo stato dell’animo in cui è completamente immerso. Egli è attratto da un mistero a cui vorrebbe accedere e a cui parzialmente partecipa già (rilassatezza del corpo, stato contemplativo dell’anima), ma che tuttavia sa di non poter far suo. Egli riconosce di non potersi tuffare in quel mare di nebbia che pur lo chiama.
L’unico modo che gli è concesso di penetrare in parte quel mistero, così potente nelle vesti della nebbia, è la contemplazione. Per giungere a questo stato contemplativo deve prima riconoscere la sua finitudine, contrassegnata dal piede fermo sull’ultima roccia, ammettendo che un passo in più significherebbe finire per sempre.
È proprio in quell’attimo, in cui si ferma sulla soglia della fine, che davanti a sé si apre l’infinito, il sublime, richiamato da Friedrich dalla già citata nebbia, dalle montagne lontane e da un orizzonte che dà realmente la percezione di qualcosa che non finisce.
Sembra che Friedrich voglia comunicare all’osservatore che se c’è una via che conduce all’Infinito già in questa vita, è necessariamente quella della contemplazione del Creato, dapprima, e del proprio mondo interiore, poi. È pertanto attraverso la contemplazione della natura, esteriore e interiore, che si giunge, per ora solo parzialmente, al Creatore.
È un’opera che, similmente alle icone della tradizione ortodossa, si rivela come una finestra sull’infinito, su un altrove al quale l’uomo ancora non può partecipare totalmente, ma solo gustare in una certa misura per mezzo della contemplazione.