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di Alberto Trevellin
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Posandomi sul grembo di mia moglie, qualche giorno fa, ho avuto la percezione chiara di vedere oltre lo spazio e il tempo, verso il luogo in cui abita Dio.
Pensavo a questa vita, a questo essere umano che ha cominciato il suo cammino verso il mondo. Adesso è grande come un seme di papavero. Mi piace immaginarlo così… un seme di papavero. Il papavero è un fiore che suscita tenerezza, riempie i campi di grano, li macchia di quel rosso lieve, tinge quel pane ancora al suo primo stadio. Eppure è così fragile. Cogliere un papavero è un affronto alla sua delicatezza, al suo compito di starsene lì, tra le spighe, senza fare altro. Appena lo si coglie sfuma come le nuvole in cielo, i petali cadono con un po’ di brezza e la sua bellezza svanisce in un attimo. Anche la vita di un bambino che ha intrapreso il suo cammino verso gli uomini è così, fragile, fragilissima, eppure c’è, viene avanti, giorno dopo giorno.
Immaginandolo come un seme minuscolo mi sembrava di guardare oltre il grembo che ora lo accoglie, in cui è piantato. Era come infilare l’occhio in un cannocchiale e vedere da che parte è arrivato, come sia finito lì. Non mi riferisco alla biologia, ai modi meccanici che hanno dato il via a quel piccolo uomo, ma ad altri aspetti, che non so definire altrimenti se non come spirituali, divini.
Per vedere certe cose non bastano gli occhi del volto, né quelli dell’intelletto, ne servono altri, che sappiano scrutare lo spirito e l’animo umano.
A quel punto mi travolge la grandezza della donna, di mia moglie, che per l’ennesima volta mi ripete: – La donna è fatta per fare figli, – me lo dice così, ancora, nella camera in penombra, fissando il grembo e avvolgendolo delicatamente con le mani. Non lo dice con rassegnazione, ma con pacato orgoglio, fiera di mettersi al telaio con Dio, a dire sì, come Maria, per quel bambino che è in lei. Sente che quella è la sua vocazione più grande, che viene prima di tutte le altre. Sembra un oracolo. Chi potrà mai capire cosa significhi portare la vita in sé, non la propria, ma quella nuova, di un altro?
In questo momento, come con le precedenti gravidanze, l’unica cosa che credo di poter fare è scostarmi da quel luogo sacro che è divenuto il grembo, inginocchiarmi e baciarlo.
La vita è da Dio. Dio è la vita. Avere figli non dipende dall’uomo, così come morire. La vita viene da lui, da un altrove oltre questa nostra vita. La fonte è in lui, sgorga dalla sua essenza che è puro amore, misericordia senza fine. E se penso al luogo della vita per eccellenza, in questa nostra terra, mi vengono in mente solo due posti: l’eucarestia e il grembo di una madre che ospita in sé un figlio, come il tabernacolo con l’ostia.
Ho difficoltà a comprendere l’eucarestia, così come a capire come la vita possa intrigarsi tra la carne. È qualcosa di immenso, che non so capire perché ammantato da un mistero fuori dalla mia portata. Vorrei che mi cadesse il velo dagli occhi, che d’un tratto la nebbia si dipanasse, per vedere bene, per capire una volta per tutte la grandezza di questo amore senza fine, che mi provoca sgomento. Invece nulla, me ne sto lì a meditare sul mistero, a riconoscerlo come mistero, a guardarlo al modo in cui si guarda una cortina spessa, una tenda mossa dal vento, dietro cui si vedono delle ombre e si è certi si celi una verità. Non riesco a fare altro.
Vedo allora mia moglie, come ogni donna, simile a un tempio, a una cattedrale. E questi templi, queste chiese viventi, non sono davvero tutte uguali, ma mostrano l’originalità impressagli da Dio. Una ha il portamento sobrio del romanico, un’altra la solennità e lo slancio del gotico, un’altra ancora gli eccessi di un barocco. Nella mente mi figuro certe colonne greche o le vetrate di Notre Dame, magnifiche, eleganti. Ma lei, ogni mamma, anche quella che ha solamente provato ad avere un figlio e non vi è riuscita, è davvero di più, è una chiesa viva, non fatta di mattoni o di legno, ma di carne, di ossa, eretta da Dio stesso, con l’aiuto degli uomini sì, ma lui ne è architetto e carpentiere. Mentre le chiese hanno i loro architetti e i loro operai, umani, qui no, dietro c’è Dio.
Così se l’uomo è sacro semplicemente perché è stato Dio stesso ad elevarlo alla vita, ancor di più la donna perché innalzata al suo rango.
Non importa che siano sante o prostitute, Dio non guarda ai peccati dell’uomo, ma all’amore che essi sanno dare… e accogliere. Queste donne, queste madri tutte, hanno pronunciato il loro fiat, chi consapevolmente, chi no. L’hanno pronunciato nel momento in cui hanno accolto quella vita, rifiutandosi di spazzarla via.
E Dio si è seduto con loro, a intessere vita umana e divina, senza guardare alle loro debolezze, che tanto già conosce, ma alla grandezza del loro sì pieno d’amore. Gli bastava questo, per entrare ancor più nelle loro vite.
Il grembo di una madre è il luogo in cui Dio s’inchina al mondo, abbassandosi, ogni giorno, allontanando così quelle accuse che in molti gli lanciano: Dio potrà anche esserci, nell’alto dei cieli, ma ha le spalle voltate.
Il grembo di una madre dice propriamente il contrario: Dio è con noi ed è un Dio d’amore.
Ogni volta che si vede un grembo gonfio di figli si dovrebbe pensare a questo, che c’è un Dio che si prende cura degli uomini, che non si è ancora stancato di loro.
Il grembo è come il portale che da Dio conduce a questo mondo, ogni donna lo sa. Custodisce la vita, come fa il tabernacolo dietro all’altare. Il bambino che è in lei si fa eucarestia e la prova che quel figlio è davvero un’ostia in carne e ossa, come lo è il Cristo nel frammento di pane, è che di lui ce ne nutriremo ogni giorno, per tutta la vita: sarà l’alimento che darà senso e significato ineguagliabili alla nostra esistenza. Egli ne è alimento anche nel senso che alimenta la nostra vita, la tiene viva e la rende vera, poiché si può vivere da morti pur essendo vivi. Con un figlio, che è un’eucarestia, la nostra vita sarà sempre come il roveto dell’Oreb, inestinguibile.
Questa visione del figlio come sostanza vitale delle esistenze dei genitori, potrebbe, forse, avvicinarci meglio a quel che è la sostanza eucaristica, per la quale si parla sempre di un Figlio, solo che in questo caso egli è il Figlio per eccellenza, in quanto Dio e in quanto creatore di tutti noi, di tutti i figli di ogni generazione. È il Figlio che ha in sé tutti i figli del mondo. Pertanto se un figlio è nutrimento essenziale per la vita di ogni genitore, tanto più il Figlio celato dietro la specie del pane e del vino. Nell’Eucarestia, ogni madre e ogni padre incontrano così loro stessi, i propri figli e Dio. Le specie eucaristiche ricapitolano in sé ogni esistenza.
Siamo sempre portati a pensare, giustamente, che la vita è un dono e per questo si debba rendere grazie a chi l’ha donata. Su questo sono convinto profondamente, però c’è un dettaglio che spesso ci sfugge, credo. Il fatto che quella vita donata che sta facendosi spazio nel ventre di una donna, non sia anche un ringraziamento di Dio agli uomini che l’hanno accolta, al padre, ma in particolare alla madre. Quel piccolo lì diventa in questo modo un’eucarestia, un ringraziamento di Dio agli uomini. Un Dio che dice grazie.
Pare assurdo, chi dona qualcosa non dice mai grazie a chi riceve il dono, è sempre il contrario. Ma qui è diverso, la vita nascente è filata da Dio e dalla donna insieme. Dio porta il materiale, che solo lui può avere, l’uomo e la donna iniziano a tessere, Dio è sempre là, ma poi l’uomo si scosta e Dio le si siede meglio a fianco e insieme cominciano a filare quel capitale senza valore, perché inestimabile.
È in quel momento che la madre diventa un tempio e se si guardasse bene si noterebbe che le sue volte superano il cielo, tanto grande è ora la sua vita. In mezzo al corpo, al centro di lei, si scorgerebbe non più un ventre, ma un tabernacolo aperto sulla vita, miracolo divino che custodisce un piccolo indifeso, come un’ ostia di pane, come un fiore di papavero.