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di Alberto Trevellin
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Vorrei che capiste le montagne, o meglio, vorrei che chi ancora non le conosce, potesse coglierne l’essenza, cosa abbiano a che fare con l’uomo.
Vorrei soprattutto che capiste cosa significhi portarvi un figlio, il proprio, e salire con lui verso l’alto, alla cima. Vi rendereste conto che non ha bisogno di camminare in un centro commerciale, né di molte cose inutili, né di regali che abbandonerà dopo pochi minuti, ma piuttosto di stare nella natura, sentendosi parte di un’immensità potente che racchiude infiniti segreti e bellezze. Vi accorgereste che ha bisogno di vedere il mondo dall’alto, che lo accompagniate in su, verso il cielo, a scrutare l’orizzonte a contemplare la volta celeste. Scoprireste, ancor più di prima, che il figlio ha bisogno di stare con voi, di camminare con voi, al vostro fianco, per parlarvi del mondo e della vita.
Prendendo il sentiero che conduce alla cima vi chiederà quanto disti da voi. Gli spiegherete che per raggiungerla c’è un tempo indicativo, ma ognuno, in realtà, le si avvicina con i propri tempi.
Gli mostrerete il silenzio degli abeti e la sacralità del bosco, quel suo mistero tremendo celato nei chiaroscuri di ogni ora del giorno.
Quando comincerete a salire davvero, prenderà a lamentarsi della fatica di quell’ascesa, forse vi maledirà tacendo o forse elencherà tutto ciò che avrebbe potuto fare altrimenti: stare a letto, giocare nel proprio giardino, guardare la televisione.
Vi dirà che è un cammino difficile, che si poteva fare qualcosa di bello anche stando a casa propria.
Allora vi fermerete, lo abbraccerete e gli darete un bacio sul capo. Vi chinerete, facendovi piccoli come lui. Poi, cingendogli il fianco affettuosamente, con la vostra mano sicura, gli mostrerete le meraviglie che vi stanno attorno: il muschio odoroso, l’acqua fresca del ruscello, la guglia imponente, l’arte delle radici, il profumo del cardo montano, il gusto del lampone.
Ecco, gli farete comprendere che avete intrapreso la via della bellezza, prima ancora della via della fatica. Gli direte che quello che vi circonda non si trova né in televisione, né sui libri, né in alcuna comodità domestica, perché sta fuori di casa, lì fuori. E chiama. Gli direte che la differenza tra un uomo e una bestia sta proprio qui, nel rispondere a quella bellezza e a quell’invito.
Gli spiegherete che questa via è sempre un uscire fuori e che non è in discesa, ma in salita.
Gli farete capire che non esiste bellezza a questo mondo che non conosca una fatica o un sacrificio.
Lui, guardandosi intorno, guardando voi che stupiti contemplate le montagne, capirà. Inizierà a bere dal calice di quella bellezza. Se ne disseterà. La fatica si farà più leggera e prenderà a salire con più lena, sentendo che l’arsura di quell’ascesa si è fatta meno feroce.
Lungo la via incontrerete anche piccoli prati di stelle alpine, eleganti e magnifiche, come sempre. D’istinto vorrà coglierne una. Lo inviterete a lasciar stare, perché la bellezza è sì per l’uomo, ma troppo spesso egli, com’è, la usurpa, sfregiandola. È un segno che certa bellezza deve stare lì, che va lasciata lì, per essere contemplata e non strappata via. Gli spiegherete che quei prati, come le rocce che vi circondano, sono lì per tutti e che la montagna non è luogo di egoismi. Che c’è una bellezza che va lasciata al suo posto, perché è per tutti gli uomini.
Capirà, perché certe giustizie non hanno bisogno di essere giustificate, ma solo accolte. Il cuore le comprende in maniera più immediata della ragione.
Solo allora, dopo che gli avrete mostrato che, prima di essere faticosa, quella fatica è soprattutto bella, potrete parlargli dell’ascesa.
Gli direte che, per quanto se ne dica, per quanto l’uomo abbia tentato da sempre di appianare quella salita, la vita è proprio come quell’ascendere: un salire faticoso, nutrito e confortato dalla bellezza. Anzi, anche quando egli è nella comodità e nel benessere, d’un tratto sente in lui un richiamo ad ascendere quella sua vita, a faticare, non troppo, ma a faticare, perché in quel sudore, in quel suo fiato corto, vi scorge una verità.
Gli spiegherete che gli altri modi per arrivare alla cima sono scorciatoie che annullano l’ascesa e il suo significato più profondo, scartando d’un colpo fatica e bellezza.
Tuttavia non gli direte di cercare a tutti i costi la fatica, perché essa si dà da sé con la vita stessa, come una condizione dell’uomo, come un abitus che ne riveste ogni fibra, corpo e anima, che scorre in lui come il sangue nelle vene.
Gli insegnerete allora ad affrontare la salita spendendo il meno possibile, faticando il meno possibile. Gli mostrerete che essa non può essere eliminata, ma solo attraversata.
Così passerete a dirgli dove sia meglio poggiare i piedi, su quale roccia e sua quale terreno, evitando quello friabile e franoso.
Lo terrete per mano quando costeggerete un precipizio o un sentiero troppo esposto, di modo che impari dai vostri passi, che sono quelli di chi sa già dove camminare.
Quando troverete un cavo d’acciaio o una scala di ferro, vi metterete alle sue spalle come a sostegno, di modo che non abbia a cadere. Il vostro corpo sarà per lui come uno scudo.
Arrampicando non perderete di vista nemmeno per un istante le sue mani e i suoi piedi. Man mano che sale, starete ancora dietro di lui, come cinte murarie. Terrete ancor più saldamente la montagna e punterete i piedi come se voleste affondarli nella roccia.
Vi scoprirete cittadelle di un’anima, non la vostra, ma quella di quel vostro figlio, muri di difesa dai pericoli che li circondano.
Farete delle soste, vi ristorerete con l’acqua fresca del rivolo che scende dal ghiacciaio. Riprenderete fiato, contemplerete. Giocherete con l’eco e gli direte qualcosa che faccia ridere. Lo stringerete ancora forte a voi, lo bacerete e riprenderete il cammino.
Dopo qualche ora anche lui sarà stanco e vi chiederà dove sia la cima benedetta. Gli direte che manca poco, che ogni passo vi sta avvicinando ad essa.
Finché la vedrete, lì davanti a voi, inondata da una luce celeste o avvolta da una mistica nube. Allora lo spronerete, lo incoraggerete, inizierete a complimentarvi con lui per aver scalato la montagna.
Una volta in vetta, guardando verso il basso, gli farete notare di cosa sia capace l’uomo, di cosa sia stato capace lui stesso: diventare più grande delle montagne. Perché lì, non la roccia sarà il punto più alto, non la montagna, ma il suo volto, lui stesso.
Soprattutto gli mostrerete che, seppur di poco, vi siete avvicinati al cielo, che avete cercato e raggiunto qualcosa che stava in alto, che avete raccolto una storia da raccontare nei giorni a venire.
Scoprirete di aver camminato insieme non solo sul sentiero della montagna, ma dentro voi stessi, assieme, mano nella mano.
Da lassù ammirerete le cime magnifiche, i silenzi veri, l’immobilità delle pietre. Contemplerete il creato, compresi i vostri figli, compresi voi stessi, che ne siete parte.
Sentirete il corpo che ritrova la pace da uno sforzo non quotidiano, non feriale. Il cuore che riprende il suo battito, il respiro che torna regolare.
Starete lì, seduti, con gli occhi sull’orizzonte, abbracciando il figlio che sta alla vostra destra o i figli che vi si sono appoggiati alle spalle.
Guarderete insieme verso le altre cime e vi coglierete un Oltre da cui tutti provengono, a cui tutti anelano. Lo sentirete chiaro in voi che la cima su cui siete non è finita, che il suo termine non è lì dove vi trovate.
Lo capirete senza parole, senza dir nulla, solo contemplando e gustando quel silenzio che trasuda Verità.
Poi vi alzerete e prenderete la strada del ritorno, quella che conduce a casa.
Vostro figlio sarà contento, perché crederà che il più sia fatto, che la fatica sia finita. Ma voi gli spiegherete che nemmeno la discesa è esente da fatica, che può essere più insidiosa della salita, che è molto più facile cadere scendendo che salendo. Gli spiegherete che quello che appare facile è invece ciò che può far rovinare a terra. Gli direte che la discesa è ciò che desideriamo tutti, in cuor nostro, ma che non è la via dell’uomo, che è fatto per salire, non per scendere. Essa è ingannevole, ci ammalia con l’illusione di non faticare, lasciandoci buon fiato. Così, a causa della stanchezza accumulata nelle ore precedenti, veniamo distolti dai nostri passi, rischiando di rovinare giù.
Crederà che sia finita, ma voi gli direte che un’ascesa finisce solo quando tutti assieme, la sera, ci si riunirà intorno alla mensa a festeggiare quella piccola impresa. Capirà da sé che una discesa costa quanto una fatica, che può persino nascondere più pericoli.
Allora scendendo, lo terrete per mano ancora una volta, per non farlo cadere o per cadere al posto suo, mostrando così tutto il vostro amore. Lo aiuterete a non scivolare, guidando i suoi passi, così che un giorno sappia da solo dove posarli, senza più bisogno del vostro aiuto.
Nel bosco, ormai prossimi al punto da cui siete partiti, lo prenderete sulle spalle, perché è giusto così, perché è vostro figlio, e perché in fondo lo volete anche voi.
Una volta a valle, mentre lieti fate ritorno a casa, con il sole che tinge d’oro e di rosa le cime, capirete che in qualche ora di cammino gli avete spiegato la vita.
Capirete che è meglio farlo oggi, non domani, perché presto, prima che ve ne rendiate conto, i nostri figli cammineranno da soli per quei sentieri celesti. Le vostre gambe e il vostro fiato non vi basteranno a salire con loro. Sarete di nuovo dietro, non più per guidarli, ma perché ormai incapaci di seguirne i passi.
Fino a quando verrà un giorno in cui li seguirete solo per un tratto, per poi lasciarli andare con il loro passo, con il loro cuore, per i loro sentieri, mentre voi proseguirete per una via modesta, possibilmente non troppo in salita, perché ora la fatica si fa doppia, si fa troppa. E camminerete forse pregando, all’ombra di abeti secolari.
Poi farete ritorno, siederete su un vecchio tronco lungo il torrente e aspetterete all’imbrunire che scendano dal cielo, come anni prima dal grembo di vostra moglie.
nda: queste righe sono state scritte qualche giorno dopo la salita al bivacco Minazio, nell’agosto del 2020. Ci ero andato con mio papà, che era riuscito a seguirci per un tratto, mia sorella e mia figlia Diletta.
Aver guidato i passi di questa bambina per sei ore, aver visto la sua serena tenacia mentre saliva quel sentiero, ha fatto di quel giorno uno dei più bei giorni della mia vita, di quelli che si mettono via, per non perderli, di quelli in cui ci si rende conto di tutta l’immensità e la bellezza della nostra esistenza.
A volte basta un giorno solo, appena qualche ora, per dar senso al nostro stare sotto il sole.