| di Alberto Trevellin |
Sono stato numerose volte in Sardegna, dodici o tredici, ho perso il conto. Ci andavo da piccolo, con gli zii e mia cugina. Poi c’è stata una lunga pausa e l’isola l’ho riscoperta solo con il viaggio di maturità, quando ero già grande e sembrava fosse passata una vita, tra l’infanzia e quegli anni di vacanze euforiche con gli amici, in macchina, da soli. Correvamo in lungo e in largo, tra baie e calette, con l’entusiasmo tipico di quel periodo, con quella gioia indescrivibile di avere finalmente terminato la scuola e con i sogni grandi che potevamo scorgere all’orizzonte. Credevamo di poter fare tutto, di aver la vita in mano.
Ecco, a parte quei due anni euforici, in seguito la Sardegna mi si è sempre presentata sotto un’altra veste, ho sempre percepito qualcosa di potente in questa terra, una sorta di mistero che tutto pervade. A pensarci bene lo coglievo anche da bambino, quando camminavo tra gli scogli o quando la sera, da casa, guardavo verso il mare. Allora, però, mi era meno chiaro.
È una sensazione, uno stato dell’animo del tutto singolare. Quel che so è che altrove questo sentire non mi capita, quantomeno non mi capita nel modo in cui lo provo lì.
La zona che frequento con la mia famiglia da alcuni anni si trova lungo la costa, nei dintorni de La Caletta e il mare è mare anche qui, con i bar sulla spiaggia, i paesi che la sera si riempiono di gente, le bancarelle che vendono sempre le stesse cose, qualche sagra o festa rigorosamente a base gastronomica, i tormentoni dell’estate che escono un po’ da tutte le casse. Insomma, è una località balneare, vacanziera, certo ben diversa dai lidi dell’Adriatico, assurdi e caotici. Qui, almeno, gli ombrelloni sono a dieci, venti, trenta metri l’uno dall’altro e si può godere il mare per quello che è, nella sua naturalità.
Ma passato questo, passata l’identità balneare, la Sardegna è qualcos’altro, “ha” qualcos’altro, un mistero appunto, che mi par di scorgere e udire in ogni essere animato e inanimato, sì, anche nei grandi scogli che circondano il faro da cui mi piace scrutare l’infinito del mare o ancor di più negli atavici nuraghi e menhir, disseminati un po’ ovunque, testimonianza di una religiosità primordiale.
Tutto è permeato da questo mistero, anche la gente che vi abita, anche le canne al vento di Grazia Deledda, gli alberi di sughero, le pecore che brucano fili d’erba arsi dal sole, anche le praterie di posidonia fluttuante sul fondale marino. E poi c’è il vento, il vento, il grande Maestrale, che arriva senza temere nessuno e sembrava voler parlare, dire qualcosa, a volte urlare. Più che aria che si muove, pare di trovarsi di fronte a una presenza.
Dico “c’è del mistero”, perché ormai, per me, dire “sacro” significherebbe opporvi qualcosa di profano, ma è un tipo di distinzione che non riesco più a fare. Ormai ho questa sorta di consapevolezza che, essendo uscito tutto dalle mani di Dio, di conseguenza tutto è sacro, inabitato dal suo mistero. Per cui dire “mistero” è dire “qui c’è Dio”. Se proprio volessi usare il termine “sacro”, l’userei nel senso che ne ha dato R. Otto, come qualcosa di fascinoso e tremendo.
Non so se sia il buon Dio a pormi in questo stato o se sia proprio la terra sarda a trasudare tutto ciò, però ogni volta io la vivo così e mi sgomenta, e mi affascina allo stesso tempo. Sarà anche per questo che vi torno appena posso, quasi per un bisogno.
Questo senso di mistero diffuso, credo dipenda anzitutto da due tratti che le sono propri.
Approdare laggiù, immergersi tra le acque cristalline della rena e il blu notturno che si scorge a qualche chilometro dalla riva, camminare tra gli aromi dei lentischi, dei mirti, dell’euforbie, delle aloe e dei fichi d’india, gustare cieli notturni in cui le stelle pulsano chiare, significa rendersi conto di cosa sia la natura, meglio, non di cosa sia, ma che essa c’è, che essa esisterebbe anche senza l’uomo, che egli ne è solo una parte.
Terra o mare che sia, l’impronta antropica, in Sardegna, è poca cosa, nulla a confronto del mio Veneto-città. In Sardegna si potrebbe scendere dal traghetto e viaggiare per centinaia di chilometri scorgendovi appena qualche agglomerato urbano. Rarissime sono le fabbriche. In Veneto, invece, chi arrivasse, per esempio, a Venezia e volesse proseguire magari verso Verona o Milano, non vedrebbe che città e zone industriali. La natura selvaggia, incontaminata, nella mia terra, non esiste più, ne son rimasti solo dei fazzoletti malconci.
Sull’isola accade il contrario. A non esistere è l’impatto dell’uomo. Laggiù, viaggiando lungo la costa o nell’interno, si sente che la terra profuma. Penso sia straordinario. È come quando si cammina nei boschi… la terra che profuma l’aria, che possiede anche questo senso estetico, olfattivo, che dona all’uomo un godimento non solo per gli occhi, ma anche per il naso.
Tra i miei campi ormai non c’è più profumo, più facile è sentire l’aria che puzza di svariati odori urbani. Il profumo della terra è una cosa rara, da me. Laggiù è la normalità.
Si può viaggiare, a piedi o in macchina, per queste lande collinari, lungo la costa, attraversando anche qualche montagna e non vedere altro che terra, alberi e greggi. E questa natura che tutto circonda e avvolge, così pura, immensa, così regina, non può che parlare di Dio. Essa è davvero l’altro libro sacro, quello sì universale, sotto gli occhi di tutti. Solo uno sguardo distratto o tiepido non scorge in tutto ciò la sua presenza, quel mistero di cui, dicevo, trasudano tutte le cose. In un certo modo, nella terra dei sardi, uno torna ad essere come il primo uomo.
L’altro tratto che conferisce alla Sardegna quel senso di cui vado parlando è il fatto che essa è un’isola. È lontana da casa, ci vogliono ore di viaggio, diversi mezzi per arrivarvi, una buona dose di pazienza, una prenotazione per tempo. Partire per raggiungerla equivale a una specie di “vattene dalla tua terra”, e davvero me ne vado, io, lontano dalle mie cose, dalle mie radici, dalla mia famiglia d’origine, da cui sono nato, e viaggio con la mia nuova famiglia, quella che ho formato con mia moglie. Mi ritrovo lontano da tutti quelli che conosco, dalla mia quotidianità, dal me stesso di ogni giorno.
Quando si arriva, finalmente, si ha la percezione chiara, io credo, di essere arrivati in un luogo altro. Magari non subito, ma dopo alcuni giorni si palpa, nelle cose e nel vento, questo mistero.
Che la Sardegna sia un luogo quasi staccato dal resto del mondo, lo si coglie anche nel modo in cui i sardi parlano di chi sta al di là del mare. Per cui quando devono dire qualcosa sulla penisola italiana, la nominano come “il continente”, mentre la parte di Mediterraneo che guarda verso la Spagna, per loro, è semplicemente “l’oceano”. Ciò dipende anche dalla dimensioni contenute delle isole, è il loro essere relativamente piccole a dar quella sensazione di altrove.
È chiaro allora che viaggiare verso un’isola non significa semplicemente andare verso un altro luogo del mondo, ma quasi in un posto che è altro dal mondo, perché lontano, circondato da centinaia, migliaia, di chilometri d’acqua. Vi si arriva attraversando questo elemento in cui l’uomo non può vivere.
Quel che voglio dire è che non si potrebbe andare in pellegrinaggio in Sardegna come si andrebbe a Santiago de Compostela o a Roma. Tra il pellegrino e la meta si pone infatti una barriera, un ostacolo, un limite, che è questa massa blu infinita.
Così, l’uomo abituato tutto l’anno a muoversi nella sua terra, nel “continente”, quando attraversa quel mare, pensa anche alla simbologia di quell’andare di là del mare. Motivo per cui quando vado in Sardegna, ogni giorno, penso all’Aldilà, sì, al Paradiso.
Devono averlo capito anche le mie figlie, che esiste una realtà oltre le cose e che il mare ne è simbolo sublime, perché un paio di volte, entrambe, mi hanno chiesto:
– Papà? Cosa c’è di là del mare?
– L’Italia, la penisola italiana, la nostra casa.
– Ma più in là ancora?
– Altra terra.
– E ancora più in là?
Solo a quel punto ho capito cosa volessero dirmi, a quale “di là” si riferissero.
– Di là del mare, amore, c’è Dio.
Eccolo allora il mistero della Sardegna, che può essere lo stesso che altri provano altrove, ma che io sento nella pelle e nell’anima da quando la conobbi ancora piccolo. Eccolo, il suo saper parlare di Dio pur restando muta, terra silenziosa, sferzata dal vento, sulle cui grandi rene bianche ci si può sedere fino a tardi e guardare fin dove gli occhi arrivano, chiedendosi: cosa c’è di là?